Brooklyn

Da spettatori, siamo da tempo abituati ai tradimenti, più o meno deliberati, e alle delusioni, più o meno dolorose, derivanti dagli adattamenti sullo schermo di storie e personaggi di romanzi che da lettori ci avevano affascinato ed emozionato. In verità, non ci si fa mai davvero il callo, anzi si spera sempre (di solito ingenuamente) di ritrovare al cinema quel  fascino, quelle emozioni. Se poi a deluderci è un romanziere che pure e in più occasioni abbiamo amato…Stiamo parlando, s’intende, di Nick Hornby che ha riscritto per il cinema Brooklyn, dall’omonimo romanzo (da noi, per l’appunto, assai amato) di Colm Toibin, uno dei maggiori scrittori irlandesi contemporanei, edito (e ora anche ripubblicato) in Italia da Bompiani. Vi si narrano le vicende di Eilis  (Saoirse Ronan), una giovane donna che dall’Irlanda della miseria e disoccupazione post-bellica (per la precisione da Enniscorty, piccola cittadina  nel sud-est del paese che è poi la città d’origine dello stesso Toibin anch’egli poi emigrato a New York…), sbarca all’inizio degli anni ’50 (la scena si svolge per la precisione tra il 1952 e il ’53), nella metropoli dove vivrà come sospesa tra la nostalgia della madrepatria e la nuova, in fondo accogliente, terra promessa del sogno americano, già allora globalizzata: un “nuovomondo” dove incontrerà anche l’amore, che ha le fattezze di un giovane italoamericano, Tony (Emory Cohen).

In parte, la mia delusione per questa  trasposizione risiede in una questione del tutto personale: la mia famiglia,  emigrata dalla Sicilia, ha vissuto per tutti gli anni ’50 a Brooklyn. Però  il film, almeno per me,  non restituisce quasi nulla delle atmosfere misteriose della  Brooklyn del tempo, sia essa quella in bianco e nero immortalata da grandi fotografi  o quella trasandata mostrata spesso anche dal cinema dei quartieri degli immigrati italiani e irlandesi (superati i dissidi “territoriali” dei primi decenni del secolo, gli   incontri, anche amorosi,  tra le due comunità erano nella realtà assai frequenti). Ma non era quello certo l’intento del film, che si presenta in  una confezione dai colori vividi (che fanno il verso ai colori del cinema del tempo), ma spesso autunnali (come nei  costumi d’epoca dal taglio ineccepibile di Odile Dicks-Mireaux): insomma più appealing anche e soprattutto per l’esportazione. Del resto, per limiti di budget (peraltro assai ben mascherati), la produzione ha girato solo due giorni a Brooklyn (di cui uno per le sequenze ambientate a Coney Island). Il risultato è per lo più un film d’interni, valorizzati  dalle accurate scenografie di François Séguin.  E forse non a caso a dirigere il film è stato chiamato un regista irlandese, John Crowley  dalla filmografia limitata, ma dal considerevole background teatrale che, oltre a  impagina il tutto senza guizzi ma correttamente,  dà il meglio di sé nelle sequenze in interni che sono assai lunghe e numerose: nelle sale da ballo, nel grande magazzino dove Eilis lavora come commessa, nelle aule serali del Brooklyn College dove, unica donna, studierà per diventare contabile, a cena attorno alla tavola della pensione dove abita Eilis,  o a pranzo a casa della famiglia  italiana di Tony.

Certo, era  difficile trasporre nel linguaggio del cinema la prosa di Toibin, quel suo racconto fortemente introspettivo, tenero e drammatico,  ricco di  sfumature e sottintesi che solo l’intimità della pagina scritta consente. E se è normale che i dialoghi, ma anche alcuni personaggi del romanzo, siano stati resi molto più “attuali”, il motivo maggiore di perplessità risiede per noi nelle scelte di sceneggiatura, ovvero nelle modifiche della struttura narrativa. Nick Hornby (già apprezzato sceneggiatore di An education e, più di recente, di  Wild)  conosce già bene il mestiere e sa come far risuonare le corde più sensibili della vicenda, quelle del melodramma in costume sui temi della nostalgia degli emigranti. La sceneggiatura dunque non rinuncia a pigiare spesso e volentieri il pedale della commozione strappalacrime, a partire dalla scena della partenza in nave di Eilis o nelle scene in cui riceve le lettere da casa.  Soprattutto, tra i due dilemmi esistenziali di Eilis – quello della sua sostanziale condizione di esule e il dilemma amoroso – il film privilegia senza indugio quest’ultimo. Lasciando sullo sfondo il   “romanzo di formazione” vira (comprensibilmente in chiave di marketing) verso il “romance” tra i due giovani. Per far questo sfronda tutta la parte – fondamentale nel romanzo – del difficile ambientamento di Eilis nella nuova realtà americana e anticipa di molto gli avvenimenti principali: l’incontro con Tony (che fa l’idraulico, ma mostra a lei i precisi contorni del sogno di una bella casa  che sorgerà sui  prati incolti di Long Island), la morte improvvisa della sorella Rose e il ritorno di Eilis in Irlanda dove, per in una breve parentesi immersa nello scenario selvaggio dell’isola, sembrerà rinascere il flirt appena abbozzato prima della partenza (e, si capisce,  segretamente assecondato dalla madre rimasta sola) con un giovane spasimante borghese di Enniscorthy.

A rendere comunque al di là delle nostre riserve, godibile il film  pensano le performance degli attori, a cominciare dalla giovanissima ma magnetica Saoirse Ronan – innocente e maliziosa a un tempo, in totale  immedesimazione con i tormenti e le contraddizioni del personaggio – e dalla perfetta spalla di Emory Cohen nel ruolo di Tony. Ma brillano anche il sempre bravo Jim Broadbent nei panni di  Padre Flood, occulto regista della vicenda e la Julie Walters che è Miss Kohe, la burbera e tipicamente irlandese (in un film che non lesina sugli stereotipi correnti, anche nella descrizione della famiglia italiana di Tony)  proprietaria della pensione.

Sullo sfondo, emerge a tratti – come nella sequenza del pranzo solidale di Natale, organizzato dalla Chiesa di Padre Flood – l’eredità  dei vecchi irlandesi “che costruirono i tunnel, i ponti, le strade” e ora sono rimasti soli e dimenticati, ai margini di quel grande sogno che pure contribuirono a realizzare. Insieme a loro, impastata di birra o whisky, risuona anche la loro unica, inimitabile musica, che racconta tutta la tristezza e nostalgia per un mondo lontano e ormai perduto.

TRAMA

BROOKLYN racconta la storia molto toccante di Eilis Lacey (Saoirse Ronan), una giovane immigrata irlandese che si fa strada nella Brooklyn degli anni ‘50. Attratta dalla promessa dell’America, Eilis lascia l’Irlanda e la casa materna alla volta della costa di New York. L’inibizione iniziale dovuta alla nostalgia di casa scompare rapidamente con il coinvolgimento in una relazione che catapulta Eilis nel mondo affascinante e inebriante dell’amore. Presto però questo entusiasmo viene spento dal suo passato e la giovane si trova a dover scegliere tra due paesi differenti e le vite che essi comportano.


di Sergio Di Giorgi
Condividi