Bright Star

“Stavo leggendo la biografia di Keats e ho scoperto la parte in cui si innamora di Fanny: mi sono innamorata della loro storia, sono stata attratta dalla sofferenza e dalla bellezza e innocenza del loro amore”. Così Jane Campion ha motivato la sua scelta di portare sullo schermo, diversi anni dopo un film forte come “In the cut”, la storia d’amore, tutta sospiri e lacrime, tra il giovanissimo poeta inglese John Keats ( Ben Whishaw) e la vicina di casa Fanny Browne (Abbey Cornish).
La vicenda è ambientata tra il 1818 e il 1821 e tutta la prima parte del film è dedicata alla descrizione degli ambienti, delle atmosfere, delle abitudini dei vari personaggi: la casa, le stanze, i colori, le voci, i gesti ripetuti sono al centro della narrazione. Lo spazio storico, lo sfondo dell’epoca vittoriana, è totalmente assente e l’attenzione è puntata esclusivamente sui due protagonisti che si inseguono, si perdono, si trovano, in un alternarsi di sentimenti, espressi con sguardi, silenzi e, naturalmente, con le parole delle poesie di Keats.
L’intenzione della regista neozelandese è, come ha dichiarato lei stessa, esaltare l’amore delicato e romantico, quasi a voler bilanciare gli eccessi di “In the cut” o di “Lezioni di piano”: in questi film, infatti, il desiderio non era qualcosa a disposizione dell’Io, bensì qualcosa che disponeva dell’Io, incrinandolo e aprendolo alla crisi. In “Bright star” è, al contrario, del tutto cancellata la problematicità connessa alle relazioni amorose: insieme alla carnalità e alla corporeità, sparisce del tutto ogni riflessione profonda sulla sessualità come memoria, tentativo, sconfitta di recuperare la pienezza originaria perduta.
A differenza delle perturbanti, e riuscite, pellicole precedenti, la regista neozelandese realizza, in quest’ultimo caso, un’opera apollinea e algida, in cui tutto è perfetto ma nulla è vero. Le inquadrature studiatissime, i dettagli sempre curati, i movimenti di macchina giusti, l’eleganza e la delicatezza formale non bastano, anzi, contribuiscono a dar vita ad un lavoro piatto e noioso: allo spettatore non resta che rimpiangere la trasgressione, la violenza, la crudeltà, mai fine a se stessa o inutile, dei film precedenti.
di Mariella Cruciani