Bob Marley: One Love
La recensione di Bob Marley: One Love, di Reinaldo Marcus Green, a cura di Frédéric Pascal.
Poche volte, come nel rapporto tra Bob Marley e la Giamaica, la storia di una nazione si è intrecciata così fortemente con quella di un individuo che ne è divenuto poi un simbolo assoluto di pace e di libertà. Il biopic diretto da Reinaldo Marcus Green raggruppa la vicenda in un arco temporale incluso tra i due grandi concerti di Marley per la sua terra: quello di Kingston, lo Smile Jamaica Concert, nel 1976, due giorni dopo l’attentato contro di lui e il suo gruppo, e il One Love Peace Concert, del 22 aprile 1978.
L’opera di Green si concentra sui tratti salienti del protagonista declinando la vita dell’uomo in parallelo a quella dell’artista, entrambe avvolte da un comune denominatore a forte contenuto religioso. Il Rastafari è il credo e la guida imprescindibile dei rasta, di Marley e della sua musica; è la figura mitizzata dell’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié, il Gesù Cristo nella sua seconda venuta.
Interpretato egregiamente da Kingsley Ben-Adir, il re del reggae appare in una versione molto patinata che, tuttavia lascia una sua impronta significativa, tracciando le linee narrative sul bordo delle sue splendide e sempiterne canzoni. Bob Marley: One Love è il racconto di un fenomeno destinato a fare proseliti anche tra le generazioni future, di un uomo che ha creduto nella forza delle sue idee e nella purezza del proprio talento. Una ricerca spinta da una spiritualità immarcescibile, vera guida del suo rapporto con l’altro e dell’incrollabile fiducia verso il futuro, anche quando il presente si ammanta di nubi e il cancro diventa improvviso e inaspettato compagno di vita. Una sorta di sintesi edulcorata documenta il rapporto tra Marley e la moglie Rita, la brava Lashana Lynch, suo mentore, spalla canora e madre di alcuni dei suoi figli.
La storia messa in scena da Green sorvola delicatamente sulle relazioni extraconiugali di entrambi e le sintetizza in un breve diverbio. La molto curata fotografia di Robert Elswit sostiene da par suo una sceneggiatura, scritta dallo stesso regista con Terence Winter, Frank E. Flowers e Zach Bailin, che a tratti si adagia un po’ troppo in un piglio agiografico, molto elegante, ma sempre tale. La macchina da presa non si lascia ingannare dai primi piani e li relaziona nella giusta misura, fornendoli il gusto, il senso del documentario d’autore, senza tuttavia intaccarne la loro vocazione di finzione.
di Frédéric Pascal