Blood

Con questo film, Nick Murphy ha creato un thriller psicologico in cui a passaggi particolarmente belli, legati soprattutto alla cura delle immagini, se ne alternano altri notevolmente noiosi per la deficitaria sceneggiatura.
Una ragazzina di dodici anni viene trovata uccisa dopo avere subito atroci violenze sessuali ben evidenti sul suo corpo di donna appena abbozzato. Uno spunto non certo nuovo, ma che poteva dare adito a sviluppi interessanti se affidato ad autori  in grado di pensare, di mettersi in gioco.
Siamo nel Lancashire, contea dell’Inghilterra del nord-ovest dove il mare è protagonista e in cui Blackpool è una città balneare ricca di attrazioni turistiche. Ma nelle immagini questo allegro senso di spensieratezza volutamente non appare mai. Il regista e il direttore della fotografia George Richmond (già autore delle bellissime immagini di Wild Bill diretto nel 2011 da Dexter Fletcher) trasformano la costa in qualcosa di simile a un pianeta alieno ostile, che non offre conforto ai personaggi, i quali devono convivere sol sangue e con la morte procurata o vista senza intervenire per evitarla.

Protagonisti della vicenda sono due poliziotti, fratelli tra loro, che indagano sul caso e fermano un uomo sordido che nella sua fedina ha condanne per violenze a minori. Entrano in crisi quando l’uomo viene rilasciato per insufficienza di prove. Aizzati dal padre, di cui i figli avevano seguito le orme, decidono di farsi giustizia da soli organizzando un raid contro di lui, non prendendo le neppur minime precauzioni per non essere scoperti. Lo bloccano cercando di farlo confessare ma si trovano di fronte ad un uomo che irride a loro ed alla legge, felice che non siano stati in grado di costruire prove di colpevolezza. Uno di loro, forse involontariamente ne provoca la morte e, assieme all’altro, nasconde il cadavere sotto la rena in una fossa che, per intimorirlo, avevano fatto da lui stesso scavare. Tutto bene se, dopo un’oretta di film, non si scoprisse l’insospettabile che aveva ucciso la ragazzina.

Qui inizia la parte peggiore del film, perché tutto è basato sulle espressioni del volto dei due, sui sospetti che forse hanno i loro colleghi, sulla crisi di coppia di ambedue, sui complessi di colpa che non riescono a gestire. A tutto questo si aggiunge che il tesserino di riconoscimento dell’ucciso è sparito e su quello c’erano le impronte dei poliziotti. Ci saranno gli spasmodici tentativi di ritrovarlo da parte dell’omicida. Quest’ultimo Sempre più in crisi, vede il fantasma del morto, ne è perseguitato e rischia di impazzire.

Per gestire questo tipo di materia occorrono autori di solida capacità che prima capiscano cosa vogliono, facendolo giungere allo spettatore, poi lo riescano realmente a fare vivere sullo schermo. Nick Murphy, probabilmente, era convinto che con qualche primo piano su visi sofferenti si riuscisse a raccontare un dramma interiore, ma non è così. Tutto appare lievemente ridicolo, irrisolto, incapace realmente di coinvolgere. Lacrime, crisi anche con la figlia adolescente, il padre dei due poliziotti personaggio presente di cui si conoscono i trascorsi da uomo d’ordine, la demenza da cui è colpito ma che è difficile inserire nella costruzione narrativa.

Alla seconda regia di lungometraggi dopo il discreto thriller horror 1921 – Il mistero di Rookford (2011), dimostra di non essere in evoluzione stilistica ma sempre più timoroso, tanto da cavalcare il filone senza mai tentare di viverlo realmente con interventi originali. Questa è una storia più adatta al piccolo schermo che non al cinema, privo come è di un effettivo linguaggio filmico: gli stacchi, i dialoghi, le soste sembrano perfette per un telefilm, noiosissime per uno spettatore costretto a subire senza potere avere l’avvallo di un telecomando per ridurre l’impatto negativo. È una storia che avrebbe tutti i crismi per dar vita ad un buon film ma è castrato dalla script spesso goffo con non riesce a dare giustificazione o vigore a quanto raccontato. Sicuramente, nel bene e nel mare sono da considerare parimenti responsabili il regista e lo sceneggiatore Bill Gallagher con sole esperienze televisive alle spalle: un progetto di questo tipo richiedeva forse maggiore esperienza.

Il poliziotto omicida è Paul Bettany, che si ricorda soprattutto per avere interpretato il monaco Silas nel film Il codice da Vinci (2006) di Ron Howard. Non aiutato dalla sceneggiatura che male disegna il personaggio che avrebbe dovuto essere il perno del film, cerca in un certo istrionismo la chiave per riuscire a rendere credibile quanto interpretato: il risultato finale, pur apprezzando la buona volontà, è deludente.

Il fratello è Stephen Graham, già nel mediocre Le paludi della morte (2011) di Ami Canaan Mann e attivo soprattutto in ambito televisivo. Dovrebbe essere personaggio complesso, tormentato da essere stato d’accordo con Bettany per fare confessare il presunto assassino, spaventato dalla morte della loro vittima, in crisi come poliziotto che deve mentire ai suoi colleghi. Tutto questo è rimasto nelle pagine scritte e non appare sullo schermo.

L’attore di origini italiane Mark Strong (Marco Giuseppe Salussolia) protagonista del buon La talpa (2011) di Tomas Alfredson, è il capo, quello che deve gestire le indagini ma anche i dubbi che ha nei confronti dei colleghi. La sua prova è di buon mestiere ma rimane marginale nello sviluppo della vicenda.
Lo scozzese Brian Cox, dall’alto della sua esperienza, cerca di rendere visibile il padre dai principi discutibili che convince i figli che l’importante è punire il colpevole e che non contano i metodi. Ha tentato l’impossibile, ma del suo personaggio poco si ricorda soffocato da una sceneggiatura che gli fornisce poche chance e da una regia che lo riduce a comprimario privo di importanza, non da motore per quella brutta faccenda di miope giustizia in cui tutto è lecito.

Il televisivo Ben Crompton è il pervertito, quello che aveva precedenti di molestie sessuali. Qui, purtroppo, la sceneggiatura raggiunge i livelli più bassi presentandolo come perfetto colpevole con tutti gli stereotipi del genere, identificandolo nel cattivo con ghigno sardonico stampato sul volto, aspetto trasandato, aria di sfida nei confronti di chi lo vorrebbe incastrare. Per l’attore poteva essere una prova importante e si impegna al massimo, ma soprattutto quando appare all’assassino sotto veste di fantasma i livelli di ridicolo sono eccessivi.

Gli fa da contraltare la brava Sandra Voe nel ruolo della madre piangente che teme per la vita del suo bambino quarantenne che considera indifeso nonostante la sua fedina penale. Appare nei momenti in cui la sceneggiatura vuole fare apparire ancora più colpevoli i due poliziotti ma le battute da melò riducono tutto ad un’ulteriore occasione perduta.


di Redazione
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