Blood Diamond
Ciò che differenzia Blood Diamond da molti altri film che non escono dagli schemi tradizionali del cinema d’azione è senza dubbio la sua componente di denuncia sociale. Con lo stile tipico dell’action movie Eward Zwick descrive le atrocità della guerra civile che alla fine degli anni Novanta insanguinava la Sierra Leone, delineando un quadro storico-politico ampio e approfondito entro cui si muovono i protagonisti: un trafficante di diamanti, una giornalista, un abitante del posto che a causa della guerra è stato brutalmente separato dalla propria famiglia. Durante le scene che descrivono gli episodi di guerra la macchina da presa, quasi a mimare un filmino amatoriale, trema nel caos delle strade piene di grida e sangue tra sparatorie ed esplosioni. E’ con un certo compiacimento nello sfoggio delle tecniche, tipico di parte delle produzioni hollywoodiane, che Zwick descrive le violenze della guerra; ma proprio grazie alla presenza forte di un contesto storico e politico, la cruda rappresentazione della violenza non risulta immotivata, né fine a se stessa.
Tuttavia la descrizione dei protagonisti appare, per certi versi, piuttosto schematica e semplificata. La sceneggiatura non si distingue certo per l’originalità, e vuole lasciar prevedere allo spettatore gli sviluppi e l’esito della storia, per cui limita e circoscrive le possibilità di costruire dei personaggi a tutto tondo, con uno scavo psicologico sottile, complesso. Il trafficante di diamanti, all’inizio cinico e senza scrupoli, di fronte alla morte esibisce un’improbabile redenzione. La descrizione dell’africano, che infine ritrova la famiglia dispersa, appare troppo stereotipata, tanto che la sua onestà morale diventa ingenuità e la sua vitalità finisce per sbilanciarlo inverosimilmente sul lato dell’istinto. La giornalista che vuole smascherare i traffici di armi e diamanti di fronte all’occidente benpensante, che segretamente sa essere complice, quando non fautore, di questi atroci meccanismi, è un personaggio costruito sommariamente, più che altro è un pretesto per inserire nel film la componente romantica e sentimentale.
Considerando queste premesse si intuisce come la conclusione del film voglia essere ad ogni costo consolatoria, conciliante, sia sul piano delle relazioni personali tra i protagonisti, sia sul piano della rappresentazione sociale; e infatti, nel momento in cui l’africano Solomon, arrivato a Londra, viene calorosamente accolto da un occidente civilizzato e partecipe che lo aiuta a ricongiungersi finalmente con la famiglia, sembra che questo stesso occidente, che compra i diamanti insanguinati della Sierra Leone, venga così riscattato. Non si può tuttavia negare che questi limiti del film siano compensati dalla ferma volontà del regista di denunciare una grave situazione sociale e politica, portando alla luce le implicazioni e le responsabilità che tutti hanno in questo contesto, incluso il singolo consumatore che sceglie di comprare un diamante di cui, molto probabilmente, ignora la provenienza.
La parte più convincente del film è quella in cui viene raccontato, con precisione e lucidità, il percorso agghiacciante che conduce i bambini africani a diventare baby killer, a imbracciare fucili che ne fanno assassini inconsapevoli e innocenti, come accade al figlio di Solomon, rapito dai ribelli del Fronte Rivoluzionario Unito, descritti come uomini sanguinari, folli e disumani. Cogli occhi bendati il bambino esegue l’ordine che gli viene impartito: spara!. Solo togliendosi la benda e vedendo il cadavere di un uomo davanti a sé, si rende conto di ciò che è accaduto. La sua storia e il suo nome vengono cancellati fino al punto che, totalmente plagiato, agisce come un automa, una macchina da guerra, quasi incapace di riconosce il proprio padre. Ma non solo: i prigionieri costretti a pescare diamanti nell’acqua fangosa, le famiglie portate in campi profughi sovraffollati che quasi somigliano a campi di prigionia, insomma la descrizione dell’assurda barbarie della guerra, che esiste solo per il vantaggio e l’interesse economico di pochi, rende Blood diamond diverso e migliore dei film di genere che vogliono soprattutto alimentare il cinema d’evasione e di consumo.
di Arianna Pagliara