Big Fish

Anche quest’ultima opera di Tim Burton è, coerentemente con le precedenti, spettacolare, visionaria, ironica, commovente.
Popolata da creature da favola, come Karl il Gigante, la Strega, un felliniano Direttore di circo itinerante, due bellissime gemelle siamesi, Big Fish non è semplicemente, o soltanto, una fucina di personaggi surreali e affascinanti, bensì un vero e proprio racconto di formazione, seppur in chiave fantastica.
Protagonisti di questa stravagante e tenera odissea sono, insieme, un padre e un figlio: i racconti di Edward Bloom (Albert Finney) incantano, da sempre, chiunque, tranne il figlio Will (Billy Crudup), che se ne è andato di casa per sfuggire all’ingombrante genitore.
Quando Edward si ammala e sua moglie Sandra (Jessica Lange) cerca di farli riconciliare, Will intraprende un viaggio a ritroso, nella memoria, per tentare di separare il mito dalla realtà nella vita del genitore, per staccarsi da lui e, nello stesso tempo, imparare ad accettarlo e ad amarlo.
E’, in fondo, lo stesso tema di un altro bel film, sugli schermi in questo periodo: Le invasioni barbariche, di Denys Arcand. Se la pellicola di Arcand è, però, improntata ad un sano realismo, Big Fish sancisce, invece, il trionfo della fantasia: le imprese incredibili che Ed Bloom ama raccontare non sono tanto dissimili, per atmosfere e contenuti, da precedenti film di Burton, quali Il mistero di Sleepy Hollow, Edward mani di forbice, Nightmare Before Christmas.
Quando, per esempio, Ed Bloom scopre la magica trasformazione del direttore del circo in lupo e conclude “che le creature che chiamiamo malvagie sono soltanto sole o mancano di buone maniere”, non si può non pensare ad Edward mani di forbice. Analogamente, la romantica sequenza in cui Ed circonda con 10000 asfodeli la sua futura moglie, incarna perfettamente la tenacia, la profondità, la poesia di cui sono puntualmente dotati i personaggi di Burton, sempre fuori dagli schemi e, per questo, rifiutati o perseguitati.
In questo caso, forse, c’è un elemento in più: alla fine del film, persino Karl, che inizialmente vive in una caverna, come un animale, vestito con pelli di topo, appare in giacca e cravatta, come tutti gli altri, allo struggente funerale di Ed Bloom.
E’, dunque, possibile, sembra voler dire il regista, “normalizzarsi” senza perdere se stessi o essere costretti a compromessi. Insomma, Big Fish è un film delicato e ottimista e che invita tutti a mettersi in gioco, come dimostra la metafora del pesce: “ se tenuto in una vasca piccola, il pesce rosso rimane piccolo; ma se tenuto in uno spazio più grande, esso è in grado di raddoppiare, triplicare o addirittura quadruplicare le proprie dimensioni”.
di Mariella Cruciani