Big Eyes

Commedia diretta, ma non creata, da Tim Burton, Big Eyes è un esempio di buon cinema, tipico prodotto dell’industria hollywoodiana. Se non fosse a firma di uno degli autori più interessanti della cinematografia d’oltreoceano, rischierebbe però di passare abbastanza inosservato. Si tratta del secondo lungometraggio di questo genere diretto da Tim Burton dopo Ed Wood del 1994, sceneggiato dagli stessi autori di questo film, Scott Alexander e Larry Karaszewsk a venti anni dal primo. Questa moda dimostra una certa povertà di idee e, soprattutto, il desiderio dei produttori di investire su titoli di cui hanno la fondata certezza che riportino indietro con gli interessi i soldi messi nella fase di produzione.
Doveva essere diretto dai due sceneggiatori e prodotto da Burton, con protagonisti inizialmente Kate Hudson e Thomas Haden Church, sostituiti da Reese Witherspoon e Ryan Reynolds che hanno poi abbandonato il progetto dopo una gestazione di oltre un anno per lasciare il posto a Amy Adams e Christoph Waltz. Successivamente, il film è stato affidato alla regia di Burton, con la sceneggiatura di Alexander e Karaszewski. Ragione principale era l’esigenza di risparmiare sul budget – si dice che il costo non abbia sforato i 10 milioni di dollari. I due non garantivano buon riscontro al box office visto che l’unico titolo da loro diretto, Screwed (2000), era stato un fallimento sia come incassi che per qualità realizzativa. La seconda, ma non meno importante ragione, era la seguente: c’era il rischio che uno dei produttori si ritirasse impedendo praticamente la realizzazione del l’opera sulla cui progettazione erano già stati spesi molti soldi.
Burton, d’accordo col direttore della fotografia Bruno Delbonnel, voleva girare su pellicola 35 mm, ma dopo la chiusura del laboratorio canadese Vancouver Deluxe e una riduzione del budget, sono stati costretti a girare controvoglia in digitale rinunciando a tentare giochi cromatici con le tonalità del beige. Queste le premesse che possono giustificare la mancanza di emozioni che caratterizza tutta la vicenda con attori che sembrano non riescano a vivere in maniera credibile i loro personaggi: difficilmente un lavoro che ha avuto in fase iniziale una vita così difficile riesce ad essere trasformato in un’opera da ricordare positivamente.
Lascia perplessi vedere le nomination per il Golden Globe ad Amy Adams come migliore attrice in un film commedia o musicale, e quella a Christoph Waltz come migliore attore in un film commedia o musicale, mentre è condivisibile la nomination per la migliore canzone originale a Lana Del Rey. Ma i meccanismi che guidano queste scelte spesso sono difficili da comprendere.
Non basta a Burton avere a disposizione, oltreché gli sceneggiatori del suo Ed Wood, un affiato team di collaboratori che comprende il direttore della fotografia di Dark Shadows Bruno Delbonnel (scelto perché ama la pellicola e da questa trae effetti visivi interessanti), lo scenografo Rick Heinrichs, la costumista Colleen Atwood e il sempre ottimo Danny Elfman che firma le musiche. È conscio dall’inizio di fare un film che non sente completamente proprio anche se è amico della pittrice Margaret Keane di cui racconta la vita negli anni 50’/60’. La sua mano la si nota solo in un paio di occasioni, una delle quali all’interno di una scena girata di notte dai toni dark.
Colori pastello, immagini girate quasi tutte di giorno, location alle Hawaii e a San Francisco, scene che raccontano la vita borghese di quegli anni.Eppure, il personaggio dell’artista era più che interessante con una vita in cui lei era stata causa dei propri mali. Accetta per dieci anni che il marito si pregi del titolo di pittore quando non è altro che un agente immobiliare che dice di dipingere e di avere trascorso parte della giovinezza sulla rive gauche parigina, non lo denuncia sia per non traumatizzare la bimba che per non rinunciare agli agi di una villa lussuosissima.
La vediamo abbandonare la casa del primo marito portando con se la figlioletta e poche cose partendo verso un futuro che si prospetta molto buio. Lavora come decoratrice per letti di bambini in un mobilificio, in privato dipinge le SUE creature, i bambini con gli occhioni stralunati che non hanno molto successo perché realizzati da una donna che per di più non sa dialogare coi media. L’incontro col futuro marito in un parco dove lei per un dollaro fa ritratti di bimbi; l’amore, il matrimonio e la corsa verso la fama ed il denaro del uomo privo di doti artistiche ma grande affabulatore che mette ai suoi piedi molte persone importanti con un marketing violento offrendo con bravura opere della moglie come regalo a primi ministri, attrici, all’UNESCO. Come principale collaboratore ha un giornalista di gossip che lo aiuta con articoli ad hoc. Secondo Warhol, citato nel film, i quadri non potevano essere brutti perché erano apprezzati da milioni di persone. Tipico del modo di interpretare l’arte, la vita, la società da parte del discusso genitore della pop art.
Christoph Waltz ha troppo spazio e gigioneggia in una maniera spesso fastidiosa, con espressioni alla Jerry Lewis ed uscite senza controllo in vari momenti, soprattutto nel processo – farsa in cui la moglie chiede di essere riconosciuta come autrice di quei quadri. Si atteggia avvocato di se stesso in una scena che non sembra mai finire, con una sceneggiatura che gli offre la possibilità di ricamare fin troppo sul suo personaggio. Poco credibile, rischia di fare infossare il film nel assoluto ridicolo.
Amy Adams, forse travolta dal fiume di parole e di azioni di Waltz, si esprime in una prova volutamente minimalista che, tutto sommato, racconta con attenzione il rapporto di sottomissione dell’artista nei confronti dello sposo padrone. Ma non riesce a rendere in maniera completa quello che è un dramma vero, senza fine in cui una donna per il bene della figlioletta si annulla e rinuncia a se stessa sia come persona che come artista.
Terence Stamp, duro critico del New York Times, con pochi tocchi delinea il personaggio che vive di onestà ma anche di esagitato desiderio di affermare a tutti la sua bravura nel giudicare, non piegando il capo quando Waltz gli dice che è tipico di chi non sa fare qualcosa denigrare chi ne è capace.
Ottime le ambientazioni, perfetta la ricostruzione di quegli anni, musica curata. Quello che manca è una vicenda che riesca realmente a coinvolgere.
Trama
Il film racconta una delle più leggendarie frodi artistiche della storia. A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, lo pseudo pittore Walter Keane raggiunse un enorme e inaspettato successo, rivoluzionando la commercializzazione dell’arte con i suoi enigmatici ritratti di bambini dai grandi occhi in realtà realizzati dalla moglie dominata psicologicamente da lui; non si limitava a vendere quadri a migliaia di dollari ma creò un forte merchandising e fu il primo a pensare che anche i manifesti delle mostre potevano essere messi in vendita. Dopo dieci anni lei lo abbandona e si trasferisce alle isole Hawaii dove incontra i Testimoni di Geova che l’aiutano a credere in se stessa ed a denunciare il marito. Ricevette quattro milioni di dollari e una credibilità come artista.
di Redazione