Bellezza, addio

La recensione di Bellezza, addio, di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, a cura di Cristiana Paternò.

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Da Aldo Braibanti a Dario Bellezza prosegue la ricerca condotta da Carmen Giardina e Massimiliano Palmese attraverso figure di spicco del panorama intellettuale italiano che mettono in evidenza, con la loro arte e magistero, ma ancor più con la propria vita, i limiti profondi di un’Italia omofoba, incapace di ammettere la diversità, persecutoria. Braibanti venne portato in tribunale con il reato di plagio, applicato solo nel suo caso, per con/dannare la sua relazione con un giovane. Dario Bellezza fu vittima di un caso mediatico costruito attorno a una malattia dal forte sapore di stigma, specie per gli omosessuali. Era il 1996 quando il poeta finì sui giornali per aver cercato una cura sperimentale contro l’HIV, venne bollato come appestato, da quel momento spinto a chiudersi in casa, preludio a una morte drammatica e prematura.

Il “Rimbaud di Monteverde”, come veniva definito goliardicamente, il “poeta più importante della sua generazione”, come disse Pasolini, è raccontato in Bellezza, addio. Il film, prodotto da Zivago e Luce Cinecittà, ha debuttato alla 59ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.

La narrazione parte da un episodio d’infanzia: all’età di due anni il piccolo Dario fu salvato per un pelo dall’annegamento. Episodio che viene raccontato dallo stesso poeta nel romanzo autobiografico Nozze col diavolo. Bellezza ne emerge come un’anima segnata da un trauma primario. Talento limpido ma inquieto, è un giovane uomo contraddittorio che si autodefiniva “pezzo di merda”, precoce vincitore del Premio Viareggio nel 1976 con Morte segreta, autore di scritti apertamente omosessuali, tra cui il romanzo Lettere da Sodoma. Un uomo al centro di una vertigine culturale irripetibile: amico di Pier Paolo Pasolini, che lo volle come suo segretario anche per aiutarlo a sbarcare il lunario, della poetessa Amelia Rosselli, di cui fu anche coinquilino, delle scrittrici Elsa Morante, con cui ebbe una intensa relazione di amore e odio, di Anna Maria Ortese. Polemico, ironico, pronto allo scherzo e alla battuta (come quando diceva di essere Moravia ai marchettari della Stazione Termini), irripetibile e immediatamente identificabile anche nel look col ciuffo di capelli folti e gli occhiali spessi.

Nel film, con le musiche di Pivio e Aldo De Scalzi, troviamo anche (o soprattutto) il racconto di una Roma in cui si aggiravano i grandi nomi del Novecento italiano, da Gadda a Palazzeschi, da Fellini a Carmelo Bene e Tano Festa. Tra gli episodi scandagliati è centrale quello del Festival della poesia di Castelporziano, quasi la cerniera tra due epoche, con un prima e un dopo: era il 1979 e si stava concludendo una stagione di libertà e “poesia dal basso”, epopea libertaria raccontata nel film da testimoni come Nichi Vendola, Barbara Alberti e Franco Cordelli. Inoltre, per la prima volta, il professor Giuseppe Garrera apre l’archivio privato del poeta, dove si trovano molte poesie inedite e tantissime lettere. In sostanza, un film dalla solida e avvincente drammaturgia che lascia l’amaro in bocca ma anche il desiderio di leggere o rileggere questo autore.


di Cristiana Paternò
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