Beau ha paura
Francesco Di Brigida recensisce il film di Ari Aster.
Beau non sembra un uomo cattivo, ma ci appare insicuro, solitario, un loser senza un obiettivo apparente o un posto nel mondo che lo rendano speciale per qualcuno. Se non per la madre che lo crede già in aeroporto per raggiungerla quando lui in un sol colpo di distrazione si fa derubare di trolley e chiavi di casa proprio sull’uscio. Al posto del suo aereo parte uno degli slowburn più impensabili e disastrosi che il grande schermo americano abbia proposto negli ultimi anni. Beau ha il volto stavolta appesantito di Joaquin Phoenix, la cui oramai proverbiale instabilità distillata per certi personaggi fragili e borderline ci lascia di stucco per l’ennesima volta. Beau vive in un quartieraccio quasi distopico a metà strada tra il criminoso 1985 di Biff in Ritorno al Futuro 2 e l’inizio pseudo-anarchico di un’apocalisse zombie, o virale. Fate voi. Niente pace o sicurezza per lui, perciò ha paura. Ma il viaggio che Ari Aster ci invita a fare, ci dirà anche altro.
Si scava nel senso di colpa di un figlio verso la propria madre. È un processo iperbolico, inizialmente spaventoso come i primi presagi di un horror, ma il regista punta al basso – povertà, dissoluzione, emarginazione e disgusto – così dove sembra non si possa scavare oltre. Aster rastrella, gratta, buca il confine del surreale, svegliandoci in una nuova dimensione più vicina alle illogicità di un incubo che a una narrazione canonica fatta di tessere riordinabili. La bizzarra epopea improvvisata e fuggiasca di Beau rappresenta l’inspiegabilità ineluttabile di un suicidio adolescenziale, propone rielaborazioni dei traumi da nascituro, gioca sadicamente con le ripicche familiari reiterate ad infinitum e osserva sotto il sole le storture seguite ai lutti. Non ci sono mostri, spettri o killer. I mostri non sono neanche i personaggi in sé, ma si nascondono tra i sentimenti mal cresciuti, spesso tossici, deviati da silenzio e incomunicabilità, dalla disperazione traumatica o da una solitudine che ingoia sé stessa ogni giorno da anni.
Insomma, a far paura non siamo noi o gli altri, sembrerebbe sussurrarci il regista newyorkese, ma quel che di più opaco cova dentro di noi inconsapevoli. Così il percorso di Beau somiglierebbe a quello di un antieroe afflitto da mali forse risolvibili con una buona terapia. Siamo allora infangati in un terreno narrativo e valoriale spugnoso, una sorta di epifania visiva sul disagio, quello vero. Quello con la D maiuscola. Terreno appunto inaccettabile, soprattutto su un cinquantenne come Beau. Anche formalmente, se parliamo del linguaggio cinematografico sconclusionato, magari scelto per l’occasione. Siamo approdati forse al più comune dei tabù inafferrabili che affliggono l’oggi. I millenial probabilmente lo sanno meglio di noi perché lo vivono e lo sbeffeggiano per esorcizzarlo. Ecco, Aster inscena il disagio con Beau ha paura. Chissà se ci troviamo ad una nuova frontiera dell’horror o davanti a un nuovo genere. Vero è che da una parte le sensazioni scomode di delirio, inadeguatezza, sgradevolezza e impotenza scatenate da Aster in questo lavoro ricordano vagamente quelle per Brazil, Incompreso, The Elephant Man e The Truman Show.
Convergendo queste lenti sulla sua nuova pellicola, il senso del suo cinema potrebbe interpretarsi come una galleria grottesca, un moderno freak show. Se una volta i fenomeni da baraccone si esibivano ai bordi dei circhi fino ai primi del novecento, oggi, un secolo dopo, Ari Aster sembra riprenda in un certo qual modo quello stupore fatto di sdegno, paura, imbarazzo e tabù, mescolati in una filmografia che seppur breve – finora tre film – presenta già i tratti dell’autore cult e divisivo. Capace di farsi amare o odiare, molte volte neanche comprendere dal grande pubblico mainstream al quale il suo cinema sempre più ricco di star si rivolge. Estenuante nelle sue tre ore, stavolta più del solito sfida lo spettatore per forma, sostanza e durata, mantenendosi stretta una sorta di ostentata imperfezione funzionale all’obiettivo di uno straniamento totale e incontrovertibile.
In Italia è arrivato il 27 aprile ma in Usa, uscito il 21 con 1200 copie, ha registrato incassi delle anteprime in alcune sale selezionate tra Los Angeles e New York, destando una certa attenzione con 320.000 dollari d’incasso. In particolare, durante una proiezione nella Grande Mela da lui presieduta, Martin Scorsese ha definito Aster “una delle più straordinarie nuove voci nel mondo del cinema”, e si è dimostrato senza dubbi in merito a Beau ha paura dichiarando: “Il film è notevole su molti, molti livelli. La seconda volta che l’ho visto ho notato l’abilità tecnica che c’è dietro. La prima volta non sapevo niente, nessuno mi aveva detto nulla. Sono rimasto colpito dal suo linguaggio così unico e così originale. Il gusto per il rischio è potente e singolare, non ci sono molti registi che oggi siano in grado di farlo a questo livello”.
di Francesco Di Brigida