Basta che funzioni
La sceneggiatura era stata scritta quaranta anni fa e conteneva tutti gli elementi che poi sarebbero diventati tipici della poetica del suo autore. Dopo quattro decenni, Woody Allen ha così rispolverato un copione che non aveva mai portato sul grande schermo. Perché mai compiere una simile operazione? Per mancanza di idee? Per rispettare i tempi della sua creatività, cioè fare almeno un film l’anno? Ma la domanda più importante è: Basta che funzioni è un lungometraggio che appare datato oppure no?
Si, in parte sembra un’operazione decisamente datata poiché ripropone in modo molto preciso stilemi intorno ai quali Allen ha edificato la sua intera carriera. Da un altro lato però, il “ritorno” a Manhattan, al palcoscenico newyorkese, sembra aver rimesso un po’ le cose a posto, dopo le esperienze vagamente velleitarie e autoriali vissute in Europa. Ma c’è ancora un altro fattore da evidenziare. La sceneggiatura di Basta che funzioni, ancorché assurda e densa di giganteschi buchi, contiene ruvidità contenutistica, cinismo e cattiveria esistenziale: tutte componenti della poetica alleniana che avevano perso di smalto nell’ultimo periodo. Il pessimismo cosmico dell’autore di Io e Annie non era certo svanito ma si era incartato in trame troppo (apparentemente) “alte” per potersi manifestare in tutta la sua causticità. Basta che funzioni è un lungometraggio, invece, quasi senza pretese artistiche, che va diritto al centro del problema. Ha senso la vita? Vale la pena abbandonarsi ai sentimenti? Che vuol dire avere fede religiosa? Sarebbe possibile una vita totalmente isolata, lontana dalle convenzioni umane e borghesi?
Il personaggio principale è un ex uomo di successo, uno scienziato che dopo crisi depressive e un tentativo di suicidio ha deciso di togliersi dal suo ambiente, di ricominciare da capo senza usufruire della posizione dominante che la società gli aveva assegnato. Ovviamente, è un tentativo impossibile, quello organizzato narrativamente da Allen. Si tratta semplicemente di un escamotage, per spingere il suo personaggio a dire, senza usare giri di parole, ciò che qualsiasi essere umano non credente e colto direbbe della religione, della società, delle relazioni umane. È superfluo dire come Boris Yellnikoff (il protagonista) sia l’alter ego di Woody Allen e come rappresenti il personaggio perfetto per veicolare contenuti di tipo pessimistico sulla realtà e sul mondo. Larry David, più noto come sceneggiatore e produttore televisivo, sembra trovarsi perfettamente a suo agio nei panni “gemello” di Allen; d’altronde entrambi provengono dalla stessa cultura ebraico-newyorkese che ha generato nei decenni artisti e intellettuali di notevole spessore.
In Basta che funzioni l’aspetto più facilmente riconoscibile è quello riconducibile alla sfera della comicità. Il film è attraversato in lungo e in largo da battute che ovviamente strappano il sorriso, ma il nucleo contenutistico è una di una tragicità sconvolgente. Si avverte, lungo tutta la sua durata, l’esigenza da parte di Allen di stemperare il dramma di fondo che avvolge Yellnikoff attraverso l’uso dell’ironia e di meccanismi linguistici stranianti. Tra questi, la parte del leone la fa lo sguardo in macchina del protagonista. Quest’ultimo entra ed esce dalla finzione del racconto per rivolgersi direttamente allo spettatore in sala e per confessargli le sue disperate riflessioni sul non senso di tutto.
Non sarà certo un film all’altezza di Manhattan, Io e Annie, Hannah e le sue sorelle e Crimini e Misfatti, ma Basta che funzioni è comunque un’opera che con notevole leggerezza invita al pensiero e alle riflessione sulla reale sostanza dei nostri comportamenti.
*Per concessione di Cultframe – Arti Visive – www.cultframe.com
di Maurizio G. De Bonis