Barriere
Ci sono voluti più di trent’anni per portare sul grande schermo Barriere, dramma teatrale di August Wilson, premio Pulitzer nel 1985. Wilson voleva a tutti i costi un regista afroamericano, per rendere giustizia al suo testo che costituisce il capolavoro del suo “ciclo di Pittsburgh” dedicato a sogni e miserie della comunità nera di quella città. Il drammaturgo è morto nel 2005, ma il suo progetto è andato in porto: Denzel Washington, che nel 2010 aveva portato in scena Barriere vincendo un Tony Award, si è messo dietro la macchina da presa per trasformare la storia dolce e amara (soprattutto) di Troy Maxson in film. Alla sua terza regia dopo Antwone Fisher e The Great Debaters – Il potere della parola, Washington ha affrontato il testo di Wilson con assoluto rispetto, con dedizione persino eccessiva, non tenendo sufficientemente conto dell’enorme differenza fra il mezzo teatrale e quello cinematografico. La regia è corretta, ma senza inventiva: è quasi come se il Denzel Washington regista temesse di rovinare il perfetto meccanismo teatrale messo in piedi da quello che è considerato il più grande drammaturgo afroamericano. Così facendo, però, finisce per ingabbiare il film in una dimensione troppo scopertamente scenica, senza sfruttare, se non in minima parte, le possibilità offerte dall’adattamento filmico (a cui ha messo mano, accreditato però solo come produttore esecutivo, Tony Kushner, autore tra l’altro di Angels in America).
D’altra parte, però, la storia è così forte, bella e palpitante che riesce comunque a trovare la sua ragion d’essere. Anche perché il Denzel Washington attore va ben oltre il se stesso regista, aderendo meravigliosamente al personaggio straripante, sensuale, duro e spesso irritante di Troy Maxson. Washington rinuncia alla sua bellezza e naturale eleganza per diventare con ogni fibra del suo corpo il suo personaggio, l’ex ragazzo nero che prometteva bene nel baseball, che ha messo la testa a posto e beve gin per dimenticare fatica e sogni svaniti, che ama sua moglie ma finisce per farla soffrire. Al fianco di Denzel Washington c’è la splendida Viola Davis, che per il ruolo di Rose ha vinto l’Oscar come migliore attrice protagonista (anche se francamente sarebbe stato più sensato candidarla nella categoria principale). Davvero notevole anche l’interpretazione di Stephen McKinley Henderson, nella parte del semplice e saggio Jim Bono, che già era stata sua a teatro. Anche Mykelti Williamson (il Bubba di Forrest Gump) e Russell Hornsby riprendono egregiamente i loro personaggi di Broadway, mentre “nuovo” nel cast è il giovane e convincente Jovan Adepo, che interpreta Corey, il figlio più giovane di Troy e Rose, quello più segnato dalla fortissima personalità del padre.
TRAMA
Pittsburgh, anni Cinquanta. Troy Maxson è un cinquantenne che si guadagna da vivere come netturbino e rimpiange di non aver potuto sfondare nel mondo del baseball a causa, secondo lui, del razzismo verso i giocatori neri. Troy è sposato con la forte e paziente Rose, da cui ha avuto il figlio Corey; ha un altro figlio, Lyons, da una relazione precedente. Il suo mondo è completato dal fratello Gabe, segnato mentalmente da una ferita di guerra e dal suo migliore amico e collega Jim Bono. Troy, che ha alle spalle un passato difficile, è vitale, affascinante, ingombrante per sé e per gli altri. Con i figli ha un rapporto forte ma contrastato, non riesce ad esprimere il suo affetto nei loro confronti e non ammette che coltivino sogni da lui non previsti. Ma lui stesso cerca, in segreto, un’altra vita più libera e leggera e questo scompiglierà le carte in tavola.
di Anna Parodi