Barbie

Le recensione di Barbie, di Greta Gerwig, a cura di Arianna Vietina ed Emanuele Di Nicola.

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La recensione
di Arianna Vietina

Il fenomeno di Barbie è emblematico delle norme e delle aspettative che regolano il cinema mainstream contemporaneo. Riflettiamoci: quasi 100 milioni di budget di marketing, avviato con impressionante anticipo e accresciuto da un’irrefrenabile passaparola social, per un film, però, basato su una delle figure iconiche più famose e riconosciute in tutto il mondo, che non ha bisogno di presentazioni. Già questo paradosso dovrebbe farci ragionare su come sia assurdo il contesto mediale in cui ci troviamo.

Il lungometraggio è stato commercializzato come adatto a tutti, sia a chi ama sia a chi odia Barbie, incarnando quindi una necessità propria del mondo social, dove l’importante è essere visti, al di là di quello che gli altri pensano di noi. E questa strategia ha funzionato, basta vedere gli impressionanti dati al botteghino o le code fuori dalle sale, anche in Italia a metà luglio. Il film in sé è adeguatamente banale nella trama per essere seguito e apprezzato da chiunque, ma anche saggiamente infarcito di didascaliche lezioni che soddisfano chi vuole uscire dal cinema un po’ arricchito. Non solo: mescola i generi, fa continui riferimenti ad altri titoli, tira in ballo marchi conosciuti nel “mondo reale” (chi non vorrà delle Birkenstok rosa quest’estate?), fa riferimenti meta testuali ad attori e creatori. Insomma, ha in sé tutti gli elementi del cinema post moderno, come si può non amarlo?

Ma di cosa parla effettivamente l’ultimo lavoro di Greta Gerwig? Il suo perno centrale è proprio il tema che perseguita i giovani, dai millennial ai genZ: l’identità. Chi sono Barbie e Ken? Quanto è profondo il rapporto che intercorre tra loro e con il mondo che li circonda? Quali sono le attese e quali invece le loro aspirazioni (per esteso, le aspirazioni di tutti noi)? La regista riesce in un piccolo miracolo: un film pop, divertente, cinefilo e scanzonato, capace di fruttare milioni di dollari di incasso, ma al tempo stesso di riflettere sui ruoli al di là del maschile e del femminile, senza aver timore di affrontare l’ansiogena possibilità di non avere un posto nel mondo.

La vera innovazione portata da Barbie all’interno del cinema femminista è proprio la capacità di disancorare il dibattito dalla pura opposizione tra generi, spostandola su un piano di confronto che concerne come le nostre identità singole si rapportano a sistemi molto più artificiali di una Barbie Dream House, quali il patriarcato (parola che non era mai stata pronunciata così spesso ad alta voce in un film!). E questa riflessione prende piede nel mondo fittizio di BarbieLand a dimostrazione che il cinema è uno dei luoghi dove c’è maggiore spazio per questo genere di discorsi. Forse proprio perché tra un monologo motivazionale e l’altro possiamo godere della manifestazione, dell’animazione, dei nostri sogni d’infanzia, tra fondali dipinti e coreografie sognanti.

La recensione
di Emanuele Di Nicola

Nella tradizione del cinema didattico hollywoodiano, Greta Gerwig prende il tema e lo semplifica, lo rende commerciale, lo mastica e risputa per tutti. Niente di male. Barbie inizia nell’ottima prima parte: dalla geniale parodia di 2001 – Odissea nello spazio con bambola (non esiste lesa maestà) si piomba nell’inferno rosa, direbbe Battisti, ovvero nel mondo di plastica di Barbieland che è terribile per tutti, per il maschio invisibile e la donna dominante che non può pensare alla morte. Gerwig e Baumbach portano al grado zero l’indagine sulla famiglia disfunzionale che fu leitmotiv del cinema americano anni Duemila, anche per merito loro: le famiglie sfasciate de Il calamaro e la balena, la ragazza sola che si appoggia agli altri di Frances Ha e Mistress America, le storie di matrimoni si ritrovano qui in modo stilizzato nella casa di bambola, il definitivo divieto di amare, un uomo e una donna senza organi genitali, che possono salutarsi ma non toccarsi, che vivono l’uno in funzione dell’altra ma non si accoppiano mai. L’idea di Barbie come epitaffio sull’ipotesi di famiglia si può estendere anche ad altri luoghi e autori: per esempio a Revolutionary Road di Sam Mendes, con l’abisso che si spalanca davanti alla coppia perfetta Winslet-Di Caprio come possibile sequel di Robbie-Gosling in questo, se la plastica diventasse carne, se fossero stati insieme consumando l’unione.

Poi dopo la premessa si innesca il tradizionale percorso della creatura di fantasia che arriva nel mondo reale, con l’obiettivo da raggiungere, ma conta più la strada: la scoperta del maschilismo e del patriarcato. La lezione della professoressa Greta è frontale, avviene per lunghi spiegoni, dialoghi espliciti, didascalie eclatanti (e qui delude anche la penna di Baumbach), ripetizioni per chi non avesse capito. L’operazione è intelligente e/o/ma furba nel rilanciare il marchio Mattel criticandolo, mettendolo in dubbio, spettinandolo con lo scetticismo dell’ironia. Il contrasto tra la riuscita e il fallimento è clamoroso, ecco un esempio: il prefinale con l’inventrice delle Barbie è una “mattelata” quasi offensiva, l’ultima battuta vaginale è pura Greta. Barbie è dunque un racconto che vive di questo contrasto insanato, tra industria e autrice, tra committente ed esecutore: sfuggendo al mandante si dibatte l’estro di Gerwig che a tratti emerge, come nell’intervento del demiurgo sulla bellezza di Margot Robbie che sfonda la quarta parete.

Provocazione sterile: ferma restando la santa mano dell’industria hollywoodiana, e se fosse meglio l’inseguimento senza pensieri di Mission: Impossible del finto femminismo barbiano? Detto questo, qui più che mai è fondamentale ricordarsi che un film è un oggetto cinematografico, un testo, da non giudicare con le armi dell’ideologia, neanche se convocata dalla stessa regista. Allora che film è Barbie? Un film fallimentare, troppo lungo, scritto male, troppo spiegato, che vanta però alcuni squarci luminosi come i balletti incantevoli, tutta la scenografia e i costumi, tutti gli attori nessuno escluso (Gosling, in effetti), un tasso medio di divertimento. Un nuovo film da far vedere nelle scuole elementari e medie, prima dell’evoluzione compiuta del cervello. Incasso planetario, tutti contenti, compresa l’ex regista indie che soffia nella bocca del drago ma è solo un alito di vento.


di Arianna Vietina ed Emanuele Di Nicola
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di Arianna Vietina ed Emanuele Di Nicola
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