Bad Roads – Le strade del Donbass

La recensione di Emanuele Di Nicola e la rassegna stampa a cura di Simone Soranna riguardo a Bad Roads - Le strade del Donbass, di Natalya Vorozhbit, Film della Critica per l'SNCCI.

Bad Roads – Le strade del Donbass di Natalya Vorozhbit

distribuito da Trent Film, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI) con la seguente motivazione:

«Quattro storie ambientate lungo le strade del Donbass testimoniano l’orrore della guerra in un monito universale. Tratto da uno spettacolo teatrale firmato dalla stessa autrice, il film alterna toni e registri senza mai allentare la tensione, con stile rigoroso e quasi “documentario”, aggiungendo all’intensità della violenza note di surrealismo e humor nero. Lo sguardo potente e schietto della regista si posa in particolare sui corpi delle donne, ma la denuncia della banalità del male travalica qualsiasi confine geografico o di identità: ci riguarda tutti».

Il logo dei Film della Critica SNCCI

La recensione
di Emanuele Di Nicola

Cattive strade. Bad Roads – Le strade del Donbass (di qui in avanti solo Bad Roads). Sono quelle del Donbass, il territorio ucraino militarizzato, in guerra dal 2014: lo racconta in forma documentaria Sergei Loznitsa con Donbass, lo riscrive in finzione la regista Natalya Vorozhbit partendo dal suo stesso testo teatrale. Quattro storie, di varia durata e squilibrate tra loro, perché in quella zona non c’è alcun equilibrio: un preside ubriaco fermato al checkpoint, una giovane che prova un’adolescenza impossibile, una donna umiliata e violentata, la trattativa per la morte di una gallina.

L’autrice, nata a Kiev nel 1975, traspone il testo dal palco allo schermo rendendo implicita la guerra, che c’è ma non esplode mai in modo frontale: si mimetizza dentro le narrazioni e per questo arriva in modo più obliquo e quindi devastante. La guerra come stato mentale. Così nel primo segmento, un pezzo di teatro beckettiano riscritto con coordinate spazio-temporali, l’uomo si lancia nel dialogo coi soldati che diventa una sospensione, non dice ma insinua fino a sospettare una realtà terribile, quella degli abusi sulle donne. Come abuso è privare una ragazza della giovinezza: alla protagonista del secondo tassello viene negata la possibilità di un teen movie, castigando il primo amore per il contesto atavico e la libertà per motivi politici, spenta da un coprifuoco che non deriva dal virus ma dall’uomo.

La trama dell’abuso deflagra poi nel terzo racconto, che lo espone davanti agli occhi: una giornalista viene torturata dai suoi carcerieri con cui apre un inquietante gioco al massacro. Cerca di blandirli, di lisciarli, di tirare fuori la presunta parte umana ricevendo in cambio la reazione istintuale e barbara (anche contro “i valori europei”, esplicitamente citati). Dopo questo tour de force, troviamo una donna che ha investito una gallina: vuole ripagarla ai proprietari e innesca uno scontro tra l’ipocrisia della posa borghese e gli autoctoni delle campagne, gli hillbillies ucraini, una contesa tra due parti che rischiano di non capirsi mai.

Ma ciò che più colpisce in Bad Roads, oltre alla sostanza dei racconti, è la forma in cui è concepito: un film a episodi, che si sfiorano e intrecciano tra loro ma funzionano anche da soli, restano autonomi e si stagliano sullo sfondo di un unico grande pericolo che li accomuna. È lo stesso principio dell’horror a episodi, quello degli anni Ottanta che a volte ritorna: perché la matrice orrorifica del film di Vorozhbit appare subito evidente, vista sia in rilievo che in filigrana. Nelle sequenze della donna prigioniera, con la sua stanza delle torture, l’horror getta la maschera e rivela i tratti del revenge, compresa la rivalsa finale. Non fa meno paura l’ultimo racconto: un negoziato incerto per risarcire la morte di una gallina, che potrebbe degenerare in violenza e alla fine trova una svolta positiva solo per un guizzo di coscienza. Ecco, questo è ciò che non è successo: guardando Bad Roads, seppure pensato e girato prima, non sorprende che sia scoppiata una guerra. Che già c’era, combattuta nel corpo e soprattutto nella testa.

Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)

Sin dal suo esordio presso la Settimana della Critica 2020, la critica italiana si è espressa benevolmente nei confronti del film di Natalya Vorozhbit. Sulle pagine di FilmTV, ad esempio, Ilaria Feole descrive l’opera come un progetto che «assembla quattro teatri di guerra (all’origine, una pièce teatrale della regista, messa in scena a Londra) ambientati in altrettanti luoghi-palcoscenici del Donbass, in cui i protagonisti si assumono (e a volte scambiano) i ruoli di vittima e aggressore come se fosse il conflitto a muoverli, ad agire in loro vece, a esistere sempre e comunque prima delle loro vite». Le fa eco Massimo Causo sulle pagine di Duels quando scrive che «l’opera prima della regista ucraina Natalya Vorozhbit, è un film sulla natura collaterale del dolore, sul rapporto orizzontale che parifica vittima e carnefice sotto lo stesso cielo. Che è quello dell’Ucraina e della sua guerra sostanzialmente fratricida, osservata dalla regista nella sua ricaduta morale, nell’andare in frantumi della relazione umana intesa come comunione di codici morali e di gestualità condivise».

Sergio Sozzo, per la rivista Sentieri selvaggi, pone l’attenzione su una chiave interpretativa molto interessante che emerge durante la visione. Scrive così il critico: «c’è sempre un momento, nei quattro stalli di cui è composto Bad Roads, in cui tutto si ferma, un istante quasi impercettibile di sospensione in cui i personaggi si guardano, zittendosi, e tutto minaccia di poter evolvere in una esplosione terribile di violenza: è l’immagine stessa la prima a cui prende un fremito, e poi tutt’intorno ai protagonisti qualcosa sembra sussultare. Dura un secondo, poi qualcuno inavvertitamente sorride, e prende una decisione spesso inaspettata. È vero, c’è sempre un punto che non vediamo, fantasmi in ognuna delle storie che Natalya Vorozhbit attraversa: la ragazzina intravista dal preside al posto di blocco, il militare che la giovane innamorata aspetta alla fermata del bus, il plotone al di là della porta “mai chiusa a chiave” dietro la quale è prigioniera la terza protagonista, e la gallina investita con l’auto dalla donna dell’episodio finale».

Su Cineforum invece, Fabrizio Tassi mette in relazione il film con la guerra contemporanea che si sta svolgendo proprio su quel fronte: «una strada sterrata in mezzo al nulla. Un check point. Un uomo che ha bevuto troppo e ha dimenticato il passaporto. Niente che non si possa risolvere con il dialogo e un minimo di umana comprensione. Ma nel Donbass non c’è più nulla di ordinario e banalmente umano. Le parole diventano armi, il caos è la regola, la violenza si scatena all’improvviso. Sotto un cielo bianco e vuoto, dentro una luce brutale, che definisce i volti e i corpi (gli individui, soli) ma cancella lo sfondo (il mondo), il preside di una scuola si ritrova nei panni di un aspirante terrorista, con un kalashnikov nel bagagliaio (i ragazzi devono allenarsi alla guerra), in un avamposto militare senza senso, dove bazzicano anche delle ragazzine (fuori campo, forse sì, forse no)».

Infine, segnaliamo l’intervento di Gabriele Porro su Cult Week, in cui pone l’attenzione sul dolore femminile che ben emerge dal film di Natalya Vorozhbit. Scrive così il critico: «sono ancora e sempre le donne le prime vittime delle guerre, anche se, come accade oggi in Ucraina, sono soprattutto gli uomini a combatterle. Oggetto di violenze dall’una e dall’altra parte, come lo sono state per anni, per secoli. Subiscono torture, umiliazioni e Il loro corpo diventa lo strumento, il principale veicolo della loro oppressione».


di Emanuele Di Nicola
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