Austerlitz
La recensione di Austerlitz, il nuovo possente film di Sergei Loznitsa, tratto dal romanzo omonimo di W.G. Sebald.
Nell’anno appena trascorso, le menzogne, soprattutto quelle della politica, hanno trovato un comodo paravento nel termine molto più ambiguo e intrigante di “post-verità”: un’invenzione della “neo-lingua” contemporanea che avrebbe fatto invidia a Orwell. Sempre nel 2016, è apparso però anche questo nuovo possente film di Sergei Loznitsa che ci induce a riflettere su cosa siano oggi la memoria, specie quella collettiva, e la verità, specie quella storica (designato tra i “Film della critica” dall’SNCCI, Lab80, dopo l’anteprima veneziana fuori concorso, meritoriamente lo distribuisce in alcune città in occasione delle iniziative per la Giornata della Memoria; a Milano, al cinema Beltrade, Loznitsa terrà anche una masterclass domenica 29 gennaio).
Il regista – di origine bielorussa, formatosi in Ucraina e che dal 2001 vive in Germania – porta (insieme all’operatore Jesse Mazuch) la sua camera digitale in quello che era il campo di concentramento di Sachsenhausen, a soli 35 km a nord di Berlino, inserito dunque tra le tappe “facoltative” dei tour organizzati (come la visita ad Auschwitz per chi visita la bella Cracovia). Prendendo dunque come spunto “narrativo” il crescente fenomeno del dark tourism – il turismo che cerca luoghi storicamente connessi alla morte e alle tragedie – il dispositivo di messa in scena, tanto semplice quanto geniale, elaborato da Loznitsa innesca un corto circuito cognitivo ed emozionale tra memoria ed esperienza (collettiva, di gruppo, individuale), oltre che tra Storia e attualità.
Molto dipende, come sempre, dai luoghi che si decide di raccontare e, soprattutto, dal punto di vista che si assume. Dall’inizio alla fine del film, dall’ingresso al mattino sino all’uscita a sera degli ultimi visitatori – in un bianco e nero dai toni poco contrastati che stende sullo schermo un velo grigio, a legare passato e presente – l’occhio del regista sceglie alcune “stazioni” (come in una laica via crucis, peraltro corrispondenti alle reali tappe del tour guidato del sito). La camera resterà peraltro sempre fissa e in posizione frontale, in campi spesso lunghi, a volte più ravvicinati, ad attendere e registrare, in lunghi piani sequenza, i movimenti della folla che varca i cancelli o dei piccoli gruppi, ma anche comportamenti e reazioni di singoli individui (senza che questi ultimi si rendano mai conto di essere ripresi, eppure la mdp riesce spesso a mimare un effetto di pedinamento). Reazioni che per lo più hanno a che fare proprio con i luoghi stessi, e con le loro funzioni, ovvero con l’architettura fisica e organizzativa del lager.
A un certo punto, nel film, una guida turistica invita a intraprendere “the darkest part of our tour, the extermination facilities”. I campi di concentramento nazisti erano realtà complesse e articolate, ”gli impianti dello sterminio” erano progettati secondo precise logiche, militari ed economiche. Sta qua la ragione del titolo del film con cui Loznitsa omaggia l’omonimo romanzo di di W.G. Sebald (2001), il cui protagonista, il professore di storia dell’architettura Jacques Austerlitz, grazie anche alle immagini dei luoghi, riavvolge i fili nel labirinto angosciante della sua memoria di bambino ebreo scampato alle deportazioni rievocando l’enorme campo di concentramento di Theresienstadt vicino Praga.
Il rapporto tra i vivi e i morti, il peso ma anche la rimozione della Storia sono del resto tra i temi ricorrenti della filmografia di Loznitsa (una ventina di documentari e due soli lungometraggi, My Joy, 2010, In the Fog, 2012): basti pensare a quella terribile, macabra ballata in cui il regista lavora sugli archivi dell’assedio di Leningrado (Blockade, 2005) o alla storia del piccolo cimitero ebraico dimenticato a Riga (The Old Jewish Cemetery, 2014).
Come nel miglior cinema documentario d’autore, lo sguardo del regista è sempre “orizzontale” e “ad altezza d’uomo”. Il suo metodo di lavoro va via via precisandosi e affinandosi come hanno dimostrato due suoi altri recenti e apprezzati lavori, Maidan (2014), dove cattura il clima drammatico dei moti rivoluzionari di piazza in Ucraina e The Event (2015), lavorando qua su rari materiali d’archivio di Leningrado nei giorni convulsi del tentato golpe del KGB nel 1991. In entrambi i casi, come del resto in Austerlitz, la vita si offre in presa diretta, senza commenti fuori campo o tesi precostituite: quello che interessa a Loznitsa, per sua ripetuta ammissione, sono le persone, con le loro emozioni, sentimenti, gesti, espressi nei momenti più tragici o di svolta della loro Storia. E soprattutto, il loro sguardo. Ma oltre a rivelare lo sguardo di chi è dentro il quadro, il regista pensa anche a quello di noi spettatori. In questo, Austerlitz raggiunge al massimo grado lo scopo. Per tutto il film scopriamo questi uomini e donne – costretti a un percorso obbligato e affrettato, in fondo quasi dei prigionieri volontari del lager – intenti a guardare, osservare, spiare, alternando curiosità e raccapriccio, interesse e indifferenza, ma forse raramente a vedere (se la radice etimologica del vedere, dal sanscrito Veda, rimanda al sapere, lo scarno o nozionistico riassunto degli eventi fornito dalle guide non fornisce alle masse dei turisti molte chiavi di lettura). Ma, al tempo stesso, è a noi che parla il film, è il nostro di sguardo quello che viene posto in questione. Cosa guarderemmo, penseremmo, faremmo noi al loro posto? E, anche noi, cosa sappiamo davvero della Shoah?
La realtà che viene rimandata dallo schermo assume spesso toni paradossali o grotteschi, ma ogni giudizio moralistico, al quale il regista non è sicuramente interessato, sarebbe sbagliato e fuorviante. Certo, siamo in una domenica d’estate che indoviniamo afosa, molti visitatori indossano magliette a maniche corte dalle scritte sgargianti, bevono bibite in lattina, consumano pasti veloci in mezzo alle lapidi funerarie. E soprattutto, non smettono di fotografare i luoghi dell’orrore o prodursi in svariati selfie (il più gettonato quello all’ingresso sotto la famigerata insegna Arbeit Macht Frei, ma c’è pure chi non disdegna di mettersi in posa davanti ai pali delle impiccagioni).
Perché ci vanno? Che cosa stanno cercando? Le domande di Loznitsa sono anche le nostre. Fino a pochi anni in molti avremmo risposto che ci si va per conoscere e per sfidare l’oblio o i negazionismi sempre emergenti. E nel film, alcune inquadrature più ravvicinate di una ragazza che legge attentamente delle iscrizioni sembrerebbero confortare questa tesi. Ma filosofi e sociologi, oltre agli esperti di dark tourism, avanzano altre ipotesi, altrettanto credibili. Mentre un nuovo “darwinismo sociale” si diffonde a livello globale, aumentando le chance di sopravvivenza dei più ricchi o dei più forti, dal cinema alla tv e in tutta l’industria culturale e del divertimento, il capitalismo contemporaneo – per rispondere ai bisogni di società sempre più impaurite ed assediate da conflitti e minacce di ogni tipo – fa della morte “virtuale” un bene da consumare in dosi sempre più massicce (mentre, ovviamente, la morte reale resta di fatto un tabù, al pari della malattia). Facendo leva sulle crescenti pulsioni voyeuristiche e sadiche, assistere alla sofferenza altrui diventa un gesto di esorcismo o un atto di resilienza rispetto a quelle ansie e paure, come qualcosa che ci dà più forza.
Ancora una volta, come sui marciapiedi della Leningrado assediata, i vivi incrociano sul loro cammino i morti, che qua a Sachsenhausen sono solo innocui ma forse utili fantasmi. L’unica realtà è il tempo che passa e ci spinge, inesorabile, verso il cancello di uscita. Il tempo e con lui anche il cinema, che per Cocteau era la “morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo”, ma lo è ancora oggi, nell’era del digitale e dei suoi flussi.
Trama
Ci sono luoghi in Europa che sono rimasti come ricordi dolorosi del passato, fabbriche doveli esseri umani erano trasformati in cenere. Questi luoghi sono ora luoghi della Memoria, aperti al pubblico sono visitati da migliaia di turisti ogni anno. Il titolo del film si riferisce al romanzo omonimo scritto da W.G. Sebald, dedicato alla memoria della Shoah. Questo film è una osservazione dei visitatori di un sito per il ricordo, nato negli spazi di un ex campo di concentramento. Perché le persone ci vanno? Che cosa stanno cercando?
di Sergio Di Giorgi