Attenberg
La recensione di Attenberg, di Athina Rachel Tsangari, a cura di Guido Reverdito.
Marina è una ragazza di 23 anni che vive ad Aspra Spitia, piccola città della Beozia, con il padre Spyros (architetto malato terminale abituato a contemplare la realtà che lo circonda riflettendo filosoficamente sulla vita partendo dall’osservazione degli edifici che lo circondano), e dove lavora nella locale acciaieria. Del tutto inesperta a livello di rapporti sessuali, e convinta di poter interpretare le interazioni e i contatti fisici tra gli esseri umani guardando in TV i documentari etologici sul comportamento della fauna selvatica realizzati dal giornalista britannico David Attenborough (di qui il titolo del film col nome storpiato in Attenberg), si fa guidare nella scoperta di un mondo a lei sconosciuto dall’amica Bella, che le impartisce vere e proprie lezioni pratiche di educazione sessuale a partire da una lunga sessione relativa al bacio con lingua con cui il film si apre spiazzando lo spettatore.
Quando in città arriva un ingegnere invitato a tenere un corso di lavoro presso l’acciaieria (e interpretato da un giovane e quasi irriconoscibile Yorgos Lanthimos, qui alle prese con la sua unica esperienza dall’altra parte della macchina da presa), Marina mette in pratica proprio con lui quanto appreso nelle lezioni che le sono state impartite. E dopo aver ottenuto che l’amica e mentore sessuale regali al padre ormai prossimo alla morte l’occasione di poter avere un ultimo rapporto sessuale prima di congedarsi dalla vita (non avendone avuti per anni dopo la scomparsa prematura della moglie), Marina si occupa della cremazione del genitore, architettando un geniale stratagemma per riuscire a spargerne le ceneri nel mare greco aggirando la proibizione in materia da parte delle autorità locali.
Algido nel suo descrivere lo stato d’animo di una post-adolescente sospesa tra il desiderio di abbandonarsi anima e corpo alla scoperta delle relazioni sessuali e la sua anaffettività praticamente congenita, Attenberg è il secondo lungometraggio scritto e diretto dalla regista e sceneggiatrice ateniese Athina Rachel Tsangari. Girato quattordici anni fa, questo ritratto di una Grecia cupa, piovosa e alquanto originale nel grigiore freddo della sua veste del tutto anti-turistica che ricorda molto certe analoghe rappresentazioni alla Theo Anghelopulos, approda sui nostri schermi solo adesso con vergognoso e inspiegabile ritardo. Ritardo che risulta ancora più surreale se si considera non solo che alla 67ª edizione del Festival di Venezia era stato nominato per il Leone d’Oro (con Quentin Tarantino – presidente della giuria – che lo aveva apertamente lodato), ma che era anche stato selezionato come candidato greco in qualità di miglior film straniero all’84ª edizione degli Oscar, pur non riuscendo a entrare nella cinquina finale. Ma soprattutto se si tiene in conto che in quella edizione del festival in laguna Ariane Labed – l’attrice francese cresciuta in Grecia e per questo in grado di recitare in lingua originale accanto a colleghi ellenici senza mai dare l’impressione di essere a disagio – vinse la Coppa Volpi come migliore attrice.
di Redazione