Argo
Per il suo terzo film da regista, Ben Affleck – bello con molta anima che ha già dimostrato a più riprese di essere una delle realtà registiche su cui il cinema americano di qualità deve puntare per trovare degni eredi a personaggi del calibro di Pollack ed Eastwood – ha deciso di affrontare un progetto decisamente di grande impegno: e cioè raccontare i fantasmagorici retroscena di un’operazione segretissima organizzata dalla CIA nel 1980 per tentare di risolvere almeno parte della cosiddetta crisi degli ostaggi in Iran che tenne in bilico mezzo mondo per 444 giorni rischiando di vedere un incidente diplomatico trasformato in un vero e proprio casus belli tra gli USA dell’astro nascente del conservatorismo più spinto Ronald Reagan e il fanatismo degli Ayatollah khomeinisti appena saliti al potere. Vista la complessità della vicenda che sta dietro e dentro al film di Affleck e la densa stratificazione di elementi extra filmici che ne arricchiscono il già sovraccarico menu contenutistico, è bene riepilogare quanto accadde a Teheran in quei giorni.
Il 4 novembre del 1979, nella capitale iraniana agitata dai venti della rivoluzione religiosa che aveva portato alla proclamazione della Repubblica Islamica dell’Iran, una folla di fanatici infiammati dalla propaganda anti-USA di regime assaltò in massa la sede dell’Ambasciata americana convinti che i servizi segreti americani stessero tramando nell’ombra per far rientrare in Iran lo Scià Muhammed Reza Pahlavi che, pochi giorni prima, aveva lasciato il paese volando a New York per essere sottoposto a trattamenti medici contro il cancro da cui era afflitto da tempo. Dopo aver fatto irruzione all’interno dei locali dell’Ambasciata, gli occupanti a nome del popolo iraniano tennero in ostaggio per la bellezza di 444 giorni 53 impiegati. Il tutto in barba a ogni forma di garanzia che lo status diplomatico avrebbe dovuto garantire loro in condizioni normali.
Nelle fasi concitate dell’attacco all’ambasciata USA, sei di essi che lavoravano all’ufficio visti riuscirono però a lasciare l’edificio rifugiandosi nella residenza dell’ambasciatore canadese Ben Taylor, il quale li nascose a proprio rischio e pericolo per più di due mesi sperando che il suo governo e quello americano tirassero fuori il coniglio dal cappello e liberassero i sei rifugiati che, nel gergo dei servizi dell’epoca, iniziarono a essere noti come “gli ospiti”. Siccome questi ultimi non potevano diventare oggetto di alcuna trattativa diplomatica in grado di far superare l’atteggiamento di oltranzistico rifiuto che la teocrazia appena salita al potere avrebbe di certo opposto, fu a quel punto che la CIA organizzò un’operazione segretissima rimasta tale fino al 1997, quando cioè il presidente Bill Clinton decise di renderla di pubblico dominio declassificandola dal rango di “top secret” che per più di diciassette anni l’aveva tenuta al riparo da sguardi indiscreti.
Il film di Affleck racconta per filo e per segno l’organizzazione e la messa in atto di quella rocambolesca missione. Missione che – denominata “Canadian Caper” – fu affidata ad Antonio “Tony” Mendez, agente della CIA esperto di esfiltrazioni in casi critici quale quello in corso a Teheran e chiamato dai propri superiori a mettere a punto un piano che potesse avere successo con il minor coefficiente di rischio possibile. Mendez dimostrò di avere maggiore fantasia del più sfrenato degli sceneggiatori perché architettò una messinscena che davvero pochi autori di genio avrebbero avuto la capacità di partorire nelle proprie officine creative convertendola poi anche in realtà. Se il tutto non fosse più vero del vero e non fosse comprovato da testimonianze e dal libro pubblicato nel 2000 dallo stesso Mendez (The Master of Disguise: My Secret Life in the CIA, ripreso poi nel dettaglio sette anni dopo dal giornalista Joshuah Bearman in un avvincente reportage apparso sulla rivista “Wired” e intitolato Escape from Tehran: how the CIA used a fake sci-fi flick to rescue Americans from Tehran), sarebbe davvero difficile chiedere a chiunque di credere tanto all’impianto teorico della missione quanto alla sua realizzazione pratica. Anche se ovviamente all’inizio una scritta in sovrimpressione su sfondo nero avverte che il film è basato su una storia vera.
Essendo amico personale del truccatore di divi hollywoodiani John Chambers (premio Oscar per Il pianeta delle scimmie), e sapendo che spesso certi film trash di fantascienza si affidavano a location esotiche come compensazione alla pochezza del materiale narrato, Mendez si finse produttore cinematografico coinvolgendo nell’impresa il vero produttore Lester Siegel (contattato da Chambers), aprì un ufficio all’interno degli studios della Columbia Pictures, e organizzò una mega presentazione in pompa magna della pellicola i cui esterni avrebbero dovuto essere girati in plaghe desolate del Medioriente, tra le quali vi era anche una parte da realizzare in Iran. Sembra infatti che l’idea di questa copertura cinematografica a un’operazione di spionaggio ad altissimo rischio fosse venuta in mente a Mendez mentre una sera, disperato e a corto di idee circa le possibili opzioni per salvare i sei “ospiti”, stava guardando proprio Il pianeta delle scimmie in TV insieme al figlio.
Per rendere il tutto più credibile, Chambers e Siegel garantirono a Mendez anche un’adeguata copertura mediatica del film in fieri, facendo sì che la stampa di settore (“Variety” in testa) ne parlasse e avvalorando così in maniera ufficiale l’idea che il film stesse davvero per essere messo in cantiere. Siccome pensava che anche così la finzione avrebbe potuto destare sospetti, il terzetto arrivò a comprare una vera sceneggiatura che di fatto era la riduzione del celebre Lord of Light, scritto nel 1967 da Roger Zelazny, più che adatto alla bisogna perché incentrato su una commistione di elementi fantascientifici e filosofia indiana. Infatti il film fasullo che la sua fasullissima casa di produzione era intenzionata a girare in Iran avrebbe dovuto intitolarsi Lord of Light (e non Argo, come viene spacciato nel film). Il titolo Argo venne infatti escogitato in seguito e non ha alcunché a che vedere con la mitologia (la nave degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro) né con l’epica omerica (il cane di Odisseo), riferendosi invece a una gag scurrile ripetuta a più riprese da Cambers e Siegel nel corso del film. Gag che nella versione italiana del film perde però completamente di efficacia: quando un giornalista chiede a Siegel quale sia il significato del titolo, non sapendo che rispondere e messo alle strette, l’astuto volpone si arrampica un po’ sui vetri, bofonchia qualcosa di incomprensibile e poi replica: “Arrr…go fuck yourself”.
La cosa funzionò al meglio perché in breve negli ambienti del cinema e degli addetti ai lavori la bufala non ci mise molto a essere presa per oro colato: si era infatti sparsa la voce che la produzione avrebbe potuto contare su mezzi faraonici (un budget di 50 milioni di dollari) e che il set si sarebbe convertito in un mega parco a tema fantascientifico da costruirsi ad Aurora, ovvero proprio in quella cittadina del Colorado divenuta di recente tristemente celebre per il massacro della notte della prima dell’ultima avventura di Batman in celluloide. Mendez aveva messo in piedi tutto questo teatrino delle apparenze con un unico scopo: l’idea era quella di arrivare in Iran con una falsa troupe, entrare in contatto coi sei “ospiti”, spacciarli come membri della troupe stessa giunta nel paese per sopralluoghi sugli esterni facendoli quindi uscire grazie ad autentici passaporti canadesi sui quali aveva riprodotto falsi visti di ingresso in Iran.
Possibile che Hollywood non abbia pensato prima a tradurre in immagini quella che – nella semplice ricostruzione dei fatti nudi e crudi – è già di per se stessa una sceneggiatura che non necessita di aggiunte ma chiede solo di essere convertita in film? Per strano che possa sembrare, l’idea è venuta soltanto un anno fa a George Clooney (praticamente un habitué del cinema sulla presenza americana in Medioriente, visti Three Kings, Syriana e L’uomo che fissava le capre) e al suo abituale compagno di scorribande produttive Grant Heslov: dopo aver letto l’articolo su “Wired”, i due rimasero infatti affascinati dalla vicenda al punto da decidere di farne un film affidandone coraggiosamente la regia al più che promettente Ben Affleck. Per la sceneggiatura si rivolsero invece al quasi sconosciuto Chris Terrio, che riuscì a incontrare Tony Mendez di persona, ritiratosi dalla Cia nel 1990, e poté così discutere con lui alcuni dettagli di natura psicologica che dal libro non emergevano e che gli permisero di costruire con maggiore coerenza e credibilità i personaggi coinvolti nell’intricata vicenda.
Se Affleck aveva già dato l’impressione di saper costruire in maniera convincente una storia sia nel lungometraggio d’esordio (Gone Baby Gone) che sopratutto nell’asciutto e riuscitissimo secondo (The Town), in questa sua terza prova non è sbagliato parlare di vera consacrazione di quello che va a buon diritto considerato più di una promessa del cinema di qualità. Il suo è infatti un thriller politico atipico in cui le tensioni caratteristiche del cinema bellico (che rendono adrenalinica la concitatissima prima mezz’ora) sono stemperate dalla leggerezza della commedia autoironica (là dove Mendez mette in piedi tutto l’edificio del falso film di fantascienza e si accanisce con garbata cattiveria sulla vacuità di Hollywood) a sua volta neutralizzata dal finale drammatico senza che il mélo faccia mai capolino. Una struttura a matrioska di sorprendente efficacia, grazie alla quale Affleck si permette anche il lusso di sbertucciare Hollywood e la sua vocazione a fabbricare sogni di cartapesta, senza però rinunciare a imprimere al tutto un duplice messaggio di grande impatto con vaghe sfumature propagandistiche nascoste tra le pieghe complesse del racconto: se è vero che politica e cinema – qui uniti nella risoluzione rocambolesca di una crisi in cui erano in ballo vite umane – sono universi posticci dominati dalla finzione e dal bluff, non va dimenticato che certe politiche sono migliori di altre (come il fatto che la folle missione di Mendez venne autorizzata dal Presidente John Carter, democratico al pari di Obama, cui il film di Affleck ha sicuramente dato un piccolo aiuto ricordando all’elettore medio – proprio nelle ultime e concitate fasi della campagna elettorale – i valori progressisti tipici della visione democratica).
Quella di Argo è sintesi di rara efficacia che rimanda alla grande stagione del cinema politico a stelle e strisce in quegli anni ’70 che qui sono lo sfondo cronologico della vicenda ma che, non a caso, sono una sorta di rimando a un’estetica cinematografica che l’industria americana ha poi smarrito per strada disconoscendo la lezione di maestri del calibro di Pakula, Pollack e Coppola (giusto per fare qualche nome) per avvitarsi in un vortice manieristico di inutili cloni che hanno trasformato il thriller politico in una serialità priva di personalità. Personalità che non manca invece ad Affleck, bravo anche ad autodirigersi nei panni del protagonista Mendez in una versione di sé quasi irriconoscibile con capello lungo e barbone nero in linea con la moda di quegli anni, e destinato probabilmente ad arricchire la non troppo lunga lista degli attori capaci di passare dietro la macchina da presa convertendo una facciata da bello senz’anima in una sorprendente personalità registica.
Trama
6 diplomatici statunitensi sfuggono all’attacco all’ambasciata americana di Teheran il 4 novembre del 1979 (a seguito della quale 53 impiegati vennero tenuti in ostaggio per 444 giorni) e si rifugiano in casa dell’ambasciatore del Canada in Iran. Per liberarli un esperto della CIA si finge produttore cinematografico e riesce a farli uscire dal paese facendoli passare per membri della sua troupe arrivata in Iran per effettuare sopralluoghi sugli esterni da girare in loco.
di Redazione