Archivio Aperto – XV edizione
Francesco Grieco commenta, tra lunghi e corti, alcuni dei film proiettati nella XV edizione di Archivio Aperto, a Bologna.
Due novità di carattere “formale” nell’ultima edizione di Archivio Aperto: l’evento dedicato a film di famiglia, found footage, cinema sperimentale e formato ridotto è diventato ufficialmente un festival, con tanto di concorso e proiezioni concentrate in pochi giorni, per i veri bulimici della pellicola. Inoltre, l’associazione Home Movies, da cui è organizzato Archivio Aperto, è diventata una fondazione. Ciò che non è cambia è la qualità della proposta, come sempre di alto livello.
Quest’anno, nel vasto programma, spiccava l’omaggio a Marie Menken, a cura di Giulia Simi. Di origine lituana proprio come il suo amico Jonas Mekas (di cui Archivio Aperto stavolta ha permesso di riscoprire il torrenziale As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty), e come lui attiva a New York, Menken viene dalla pittura, ma dopo varie esperienze sui set cinematografici inizia a realizzare con la sua Bolex H16 dei corti in 16mm, di sorprendente creatività. Citiamo, almeno, tra le opere proiettate in pellicola durante il festival, tre lavori in stop-motion, in cui lo sguardo si perde nella frenesia di un mondo che corre a una velocità esagerata: il ritratto d’artista Andy Warhol, la sinfonia urbana Go! Go! Go! e l’affascinante, poetico Moonplay, musicato da Teiji Ito.
Peccato non aver potuto assistere, nella giornata iniziale del festival, per problemi tecnici, all’annunciata performance di Courtney Stephens: anche nella versione non dal vivo, e quindi in voice over, le parole della regista americana accompagnano con grande efficacia le immagini di Terra Femme. Inizialmente interessata a studiare la scrittura delle donne nelle colonie britanniche, Stephens si reca in India, ma il materiale secondario del progetto sull’India ai tempi dell’indipendenza diventa il vero film. Una precisa e chiara riflessione sul valore, ugualmente forte, di rinegoziazione autonoma e individuale dell’identità femminile che possono avere film amatoriali di viaggio, girati da donne di diversa origine, nel tentativo di far sentire la propria voce attraverso la rappresentazione del mondo. Stephens, in un flusso di citazioni mai fuori luogo, non cala dall’alto concetti predefiniti, pone domande interessanti (“esiste davvero un female gaze?”), senza avere già le risposte. Lo spettatore viene portato a conoscere, attraverso le loro imprese dietro e davanti alla cinepresa, donne coraggiose, delle quali, in contrasto con l’eccesso di confidenza di certi discorsi di insediamento, è bene specificare i cognomi: Annette Dixon, Kate Tode, Aloha Wanderwell, Carry Wagner, Mary Butler Lewis, Christine Reid. Ursula Graham Bower, Adelaide Pearson. Figure di una controstoria che inventano nuovi modi di vedere e rifiutano il motto del Mago di Oz “there’s no place like home”.
Tra i film del concorso, merita una menzione American Journal di Arnaud des Pallières. Questo lungometraggio del regista parigino è il risultato di diciotto anni di lavoro sull’archivio Prelinger. Nel presentare il film in sala davanti al pubblico bolognese, des Pallières ha dichiarato che talvolta le immagini d’archivio possono diventare più intime di quelle che un regista gira in prima persona, spesso invece estranee perfino a chi le filma. Un’idea apparentemente controintuitiva, per spiegarla des Pallières ha utilizzato la metafora dell’amore nei confronti di un figlio che si è scelto di adottare, un sentimento di affetto potenzialmente più profondo e più forte di quello che si prova per i propri figli naturali. Con questo paragone, si ribadisce indirettamente uno degli aspetti più tipici di questo tipo di cinema: lo spettatore di un film di found footage è una sorta di “doppio” del regista stesso, perché entrambi guardano, in tempi diversi, immagini altrui. Ma, in particolare, questo film di des Pallières si caratterizza anche per la frequente interruzione del flusso continuo delle immagini, attraverso le parole delle didascalie, che riportano anche le date del diario a cui i fotogrammi hanno dato origine, partendo come un esperimento d’improvvisazione, giorno dopo giorno, dal 18 gennaio. Ricordi e associazioni di idee, riguardanti numerose citazioni di testi letti, derivano dalle immagini, come per sedimentazione, nel metodo per cui des Pallières ha ritenuto opportuno optare, in questo Journal d’Amérique. Per allontanare l’angoscia di dimenticare tutto, infanzia compresa, come se il mondo si rinnovasse in ogni momento, in un tour de force stilistico sul paesaggio americano des Pallières prova a raccogliere tutto ciò che gli altri lasciano andare, così il vento non può soffiare via i ricordi. Segue, successivamente, la fase di verifica dell’abbinamento tra testo e immagini e il montaggio definitivo, spontaneo come la scrittura automatica dei surrealisti. Il suono deve molto a Mekas: informe, lo-fi, attualizza e concretizza le immagini, come in un “désarchivage” che fa entrare il film in un presente impuro, evitando quel silenzio dei materiali che porta con sé una sorta di aura e finisce per intimidire.
La sezione competitiva del festival comprendeva anche dei cortometraggi. Sensitive Material dell’ucraina Nataliya Ilchuk è un film che usa solo il 5 o 10 per cento di found footage, uno stock di materiale deteriorabile degli anni Settanta-Ottanta, il resto delle immagini sono state girate dalla regista nel corso di dieci anni, senza l’intenzione di realizzare un film. Un registratore Zoom viene dimenticato acceso nella cucina dei nonni, così Ilchuk si ritrova per caso tra le mani la traccia audio che costituirà la struttura, a livello di colonna sonora, del film. Dalla lettura di una lunga lettera di condoglianze, la discussione tra la regista e i parenti, di cui vedremo il volto solo alla fine, verte sui traumi famigliari, in contrasto con ciò che vediamo: scene di bimbi felici con i genitori e riprese turistiche. Il film dà voce a tre generazioni di donne, comprese la madre di Nataliya, cioè Lilia, e la nonna: a quest’ultima viene spiegato da figlia e nipote che molti libri sottolineano l’importanza per i bambini di vedere la propria madre felice. La nonna sostiene invece che nell’URSS la vita fosse così dura da rendere impossibile l’esistenza dell’amore.
Un approccio al cinema ben differente è quello di Maryam Tafakory, nel suo corto Nazarbazi, parola che in lingua farsi significa “gioco di sguardi”. Un film che, a partire dalle scene di numerosi film iraniani degli ultimi decenni, dagli anni Ottanta in poi, compreso Fireworks Wednesday di Asghar Farhadi, si serve del montaggio e delle didascalie per rendere esplicito, evidente, tutto il desiderio femminile non detto che la censura di regime reprime. Dettagli di mani, volti, occhi, oggetti; cibo, sangue, violenze sulle donne; sovrimpressioni, ripetizioni di immagini e parole. Un patchwork tanto eterogeneo quanto raffinato e colto, che cita testi di Barthes e Derrida, ma anche di Forough Farrokhzad.
Da segnalare anche il singolare Home When You Return dello statunitense Carl Elsaesser, mezz’ora di film a basso costo, davvero spiazzante per i cambi di tono e di genere. Ha il merito di mostrare le sequenze di un misconosciuto film amatoriale del 1957, A Change of Scene, girato e interpretato dall’allora trentenne Joan Thurber Baldwin, eclettica artista underground. Ma il film di Elsaesser è anche un omaggio parodico ai melò di Douglas Sirk (quante finestre inquadrate!), e mescola cinefilia, sperimentazioni stilistiche e autobiografia romanzata. Volti offuscati, parole cancellate contribuiscono a creare un mistero apparentemente destinato a rimanere tale. Documenti reali, come una lettera o le foto di famiglia, testimoniano di una mancanza, di lutti trasfigurati nel montaggio imprevedibile. La nonna del regista muore (anche se l’epistola che vediamo nel film nella realtà si riferiva alla morte del nonno di Elsaesser), la casa rimane vuota e viene messa in vendita, un’ombra in sovrimpressione la esplora. C’è una lettera anche nel film di Baldwin, le cui immagini aprono e chiudono Home When You Return. Questa circolarità è la corrispondenza a livello formale di una simmetria nel contenuto, cioè il film suggerisce un parallelo tra due donne che alla fine, in una didascalia, scopriamo essere nate a soli cinque anni di distanza: Joan Baldwin e Mary, la nonna del regista. Il volto di entrambe è nascosto, l’analogia prescinde dai lineamenti, è un “detour” identitario.
Tornando ai lungometraggi, commuove Time Theorem di Andrés Kaiser. Il nonno del regista, Arnoldo, negli ultimi anni di vita, terminati in una casa di riposo, si ammala di una grave malattia neurodegenerativa che gli fa perdere la memoria e dimenticare lo spagnolo. Finché è in salute, insieme alla moglie Anita, affianca al lavoro in tipografia la passione per la fotografia, scoppiata in gioventù dopo che lo zio gli dona una fotocamera, e per il cinema amatoriale. Kaiser ha registrato le voci dei parenti per rievocare il ricordo di questa coppia, sin dall’incontro tra i due, appartenenti a due famiglie messicane emigrate in Svizzera. È il suocero a regalare ad Anita una cinepresa, che lei porta con sé a Veracruz in viaggio di nozze. Anita usa la pellicola per riprendere un paese destinato a subire cambiamenti irreversibili. La donna inizia proprio in quell’occasione a filmare il mondo da una finestra, un tipo di inquadratura che ripete tante volte negli anni. Anita e Arnoldo si trasferiscono presto nella casa di San Luis Potosí che diventa il set preferito dei loro film. Hanno cinque figli. Le foto risalenti agli anni Venti, Trenta e Quaranta, e poi le riprese dei loro viaggi, i film in 16mm girati dai coniugi s’intrecciano, in un ordine non cronologico ma proprio per questo più coinvolgente, con le lettere scritte e ricevute dalla coppia. Viene ricostruito, così, grazie al prezioso commento vocale del regista, un percorso di vita travagliato ma intenso. Gli ultimi fotogrammi in cui Arnoldo compare sono quelli di una ripresa effettuata dal padre del regista, in cui l’anziano Arnoldo è in compagnia del piccolissimo Andrés, con la madre. Time Theorem è il film struggente di un uomo che dialoga a distanza con il nonno (e la sua immagine), in sostanza mai conosciuto.
L’evento clou di quest’edizione di Archivio Aperto è stato l’incontro con Annie Ernaux, giunta in città con uno dei due figli, David Ernaux-Briot, il regista di The Super8 Years, un riuscito connubio tra i film della famiglia Ernaux – cinque ore di riprese che coprono quasi dieci anni – e il testo scritto appositamente per l’occasione, letto dalla scrittrice in voice over. Annie Ernaux e l’allora marito Philippe acquistano una cinepresa Bell & Howell alla fine del ’72. All’inizio viene usata da Philippe soprattutto per filmare i mobili della casa in affitto che la famiglia abita insieme alla madre di Annie (l’anziana signora decide solamente qualche anno dopo di tornare a vivere a Yvetot). Ma è lo stresso strumento di ripresa grazie al quale possiamo vedere i film che la coppia gira nel Cile di Allende, nell’Ardèche, in Marocco, nell’Albania di Hoxha, nella Londra prethatcheriana, ad Ajaccio, in Spagna. Viaggi il cui ricordo privato, nelle parole di Ernaux, è indissolubile dal contesto sociopolitico del momento. La vita matrimoniale, intanto, prosegue, di pari passo con la carriera letteraria di Ernaux: l’esordio Les armoires vides viene pubblicato da Gallimard nel ’74. A Natale, nello stesso anno, il figlio Éric festeggia il decimo genetliaco. Tutto sembra procedere per il meglio, ma Annie si sente poco integrata nella famiglia di Philippe, dove le donne sono tutte casalinghe. L’acquisto di un monolocale a La Clusaz permette a marito, moglie e figli di fare delle vacanze in montagna. Cambiano spesso casa, e con gli anni i filmati d’intimità famigliare si fanno sempre più rari, a testimonianza dell’indebolirsi dei legami. La scarsità di volti e corpi nei film girati in Portogallo è proprio la conseguenza dell’allontanamento tra Annie e Philippe. L’ultimo viaggio insieme è a Mosca nel 1981. L’anno successivo è quello della separazione. Philippe tiene con sé la cinepresa, Annie conserva i film, che arrivano dopo decenni ai nostri occhi per ricordarci, oggi come allora, che il personale è politico.