Anselm
La recensione di Anselm, di Wim Wenders, a cura di Marianna Cappi.
Il Wenders dei documentari non ha niente di meno del Wenders dei film a soggetto: lo conferma Anselm, ultimo ritratto d’artista, magnetico e immersivo, in cui il cineasta e il pittore e scultore, suo coetaneo, si rendono reciprocamente servizio, muovendosi su un terreno di immagini, riferimenti, ferite in comune.
Anselm è infatti un titolo che richiama tanto l’amicizia che lega i due uomini quanto la figura di Keifer bambino, cresciuto letteralmente sulle macerie della seconda guerra mondiale, impressionato come una pellicola dai cieli, i girasoli, le biciclette, che in seguito faranno parte del suo vocabolario materico. Tutt’altro che illustrativo, il film, girato con un 3D più che giustificato, va al cuore dell’opera di Kiefer, ripercorrendone l’origine, la peregrinazione, la composizione geologica.
Nel mentre, Wenders fa tabula rasa dei frequenti fraintendimenti politici, rendendo chiaro il ruolo di messaggero scomodo interpretato dell’artista, costretto a riaprire il vulnus della Storia, anche a costo di non essere compreso, per ricordare ciò che è stato e che permane, negli strati sotterranei, e che non si può dimenticare.
La prospettiva aerea, angelica, sull’atelier di Croissy, nella periferia di Parigi, restituisce visivamente la pratica mitopoietica di Kiefer, e l’esistenza a tutt’oggi di un vero e proprio universo, attraversabile in bicicletta come una città, con i suoi pianeti o distretti, le case, le torri, la biblioteca di tutte le cose. Un atelier che è cosmo e dizionario, fatto di elementi ricombinabili tra loro, dalla fiamma ossidrica di un moderno, tragico Efesto.
di Marianna Cappi