Anni felici

Gli anni felici cui il titolo allude sono i primi anni ’70. Notoriamente non proprio felicissimi ma facilmente mitizzabili se li si rivive attraverso la lente deformante e acritica della memoria personale. Per la precisione si tratta del 1974, anno particolarmente critico per la storia del paese perché segnato da eventi epocali quali il tribolato referendum sul divorzio che divise la popolazione tra abrogazionisti e sostenitori della legge approvata nel 1970 che si voleva cancellare, ma anche le bombe a Piazza della Loggia a Brescia e sul treno Italicus nonché l’austerity seguita alla crisi energetica internazionale. Eventi di cui però non vi è praticamente alcuna eco diretta nel film perché a raccontare i fatti rievocati è un ragazzino di dieci anni che, divenuto adulto, riesuma appunto quella trafficata estate del 1974 riandando con la memoria alla propria famiglia e sopratutto al tormentato rapporto che lega i suoi genitori.

Il padre, Guido, è un pittore e scultore che, sulla scorta delle mode del momento, si crede un rappresentante particolarmente dotato delle avanguardie artistiche all’epoca sulla cresta dell’onda, confondendo quella che è un’evidente convinzione acritica con il reale valore della propria arte. Arte che si esplica più che altro in fumose performance nelle quali il suo laboratorio diventa uno scannatoio quanto mai borghese in cui la nudità delle modelle imbrattate di vernice lo aiuta a coniugare il proprio senso di bohème con continui tradimenti carnali ai danni della moglie Serena

Sarà soltanto a Milano che Guido scoprirà la pochezza del proprio talento quando un critico molto cattivo ma onesto scriverà un pezzo feroce su una sua imbarazzante performance andata in scena a una mostra di giovani artisti concettuali. E sarà solo allora che avrà finalmente la forza di estrarre un vero momento di ispirazione dalla doppia crisi personale e artistica che lo dilania, trovando finalmente lo spunto giusto per esprimere attraverso una colossale scultura in argilla tutto il proprio tormento interiore.

La moglie Serena, figlia della solida piccola borghesia commerciale della città legata a valori molto materiali per cui tutto ha un valore monetizzabile, non ha invece grosse ambizioni culturali (“amo l’artista più che l’arte”, la si sente ripetere in più di un’occasione) e trova nell’affetto dei due figli di cinque e dieci anni una forma di consolazione ai tradimenti del marito che lei perdona accettandoli come il prezzo che una vera compagna deve pagare per stare accanto a un uomo (che lei crede) dotato di talento.

Anche nel suo caso, la svolta verso un futuro di affermazione individuale affrancato dal possente cono d’ombra del marito sotto il quale non ha mai smesso di ripararsi si presenterà sotto forma dell’intervento di un agente esterno: invitata a trascorrere una vacanza in Camargue dalla gallerista di Guido (una carnosa quarantenne tedesca che si rivelerà essere omosessuale ma decisiva nella sua crescita interiore), Serena finirà con lo scoprire il lato oscuro della luna, lasciandosi travolgere da un genuino turbine affettivo nell’ambito di una comune femminista in cui la liberazione della donna dalla tirannia machista degli uomini è il mantra capace di convertire alla causa anche le più renitenti al richiamo dell’amore lesbico.

Le vicende ripercorse e i tumultuosi (dis)amori che legano Guido e Serena in quell’anno caratterizzato da cambiamenti epocali destinati a stravolgere il presente ma anche il futuro di un’intera nazione sono rievocati a distanza di anni da Dario, il figlio più grande della coppia, il quale assiste da spettatore impotente ai travagli della vita di coppia dei genitori registrandone – a volte anche con rabbia non sempre soffocata (come nel caso della bellissima scena in cui li accusa davanti a tutti di essere “due grandissimi str…” prima di buttarsi nelle acque di un porticciolo dove rischia di annegare) – le fibrillazioni emotive e fisiche in un impietoso diario della memoria offesa. Diario che, soltanto col passare del tempo e grazie alla sua azione curativa, potrà trovare il superamento del suo dolore esistenziale proprio nella rievocazione di quel passato dolceamaro che è l’infanzia.

Terzo capitolo di una trilogia ideale costituita da Mio fratello è figlio unico (la maturazione di una coscienza politica) e La nostra vita (la famiglia come sola medicina possibile contro il male di vivere e le sirene del consumismo facile), Anni felici è forse il progetto più ambizioso che Daniele Lucchetti abbia mai messo in cantiere nella sua ormai lunga carriere piena di successi. E che si tratti di un progetto di ampio respiro lo dimostra non solo il fatto di voler raccontare quella che, per sua stessa ammissione, è la storia – anche se in parte romanzata – della propria famiglia, ma anche la volontà ferma di ripercorrere in maniera elegante e sobria un periodo concitatissimo di Storia patria attraverso la storia di una famiglia spiata dal buco della serratura della memoria e utilizzata come vicenda esemplare di un’intera generazione.

Anni felici si presenta quindi come un’operazione double face: da una parte è infatti la chiusura di un conto aperto col proprio passato nel quale l’autobiografismo non si spinge così in profondità da diventare ossessione ma si limita a fornire pretesti per rievocare un mondo perduto in cui tutto sembrava difficile anche se non ci si era accorti di essere veramente felici, e dall’altra risulta invece un’operazione nostalgia che riporta in superficie una generazione – quella dei vari Guido e Serena e dei loro sogni infranti – che aveva avuto in mano il match ball per vincere la partita con la Storia ma che lo aveva sprecato inseguendo ingannevoli chimere e lasciandosi inebriare dalla sbronza ideologica che aveva finito per inquinare quegli anni.

Non è quindi un caso che molte delle ossessioni di quell’era accompagnino le inquietudini wertheriane del giovane Guido e le ansie di indipendenza della più concreta Serena. Mentre le loro logomachie e i diversi tradimenti consumano un amore che vive di una fisicità prorompente insufficiente però ad alimentare con costanza la fiamma del sentimento, sullo sfondo sfilano in sordina le pagine della grande Storia, lambite anche solo in maniera incidentale da vaghi accenni o da elementi visivi che ne suggeriscono l’immanenza.

Ecco quindi sfilare in ordine sparso il divorzio e le battaglie per difenderne la sofferta introduzione, la consapevolezza di essere padroni del proprio destino pur non essendolo affatto, le lotte per l’emancipazione della donna nelle forme più estreme di femminismo militante, le prime crepe che si aprono nei nuclei familiari, fino ad allora sempre ridotti a camere a gas nelle quali l’infelicità doveva essere soppressa in nome della facciata e del quieto vivere borghese, incrinandone così la crosta dura di perbenismo di comodo, l’arte vissuta come liberazione individuale senza vincoli e non più come forma di irreggimentazione della creatività, o ancora le ombre cupe degli anni di piombo con una guerra civile in atto mai apertamente dichiarata che si rivela un corrispettivo concettuale ai conflitti intestini che portano Guido e Serena a imboccare strade divergenti.

Con Anni felici Daniele Luchetti (che ha apertamente ammesso di aver voluto raccontare la vera storia della propria famiglia pur arricchendone il vissuto reale con parecchie iniezioni di elementi di invenzione creati ad hoc per irrobustire gli argomenti con cui vuole dimostrare la propria tesi di fondo) firma anche un atto d’amore a un certo tipo di cinema destinato probabilmente a scomparire per sempre travolto dall’elettronica e dalla tirannica digitalizzazione dell’immagine: tutto il film è in fatti girato esclusivamente con pellicola di cui Luchetti chiama a raccolta tutti i formati storici che ne hanno costruito la leggenda. A conferma di questa impressione c’è l’alternarsi dei 35 e dei 16mm, cui fa da naturale controcanto l’innesto di alcuni filmini girati in Super8 da Dario, alter ego del regista e ossessionato sin da piccolo dal desiderio di raccontare per immagini la realtà che lo circondava con una cinepresa Canon regalatagli dalla facoltosa nonna materna.

Anche se a tratti un po’ lento nella sua parte centrale e non sempre convincente nelle ripetute scene dei contrasti tra i due protagonisti, Anni felici ha tra gli altri meriti quello di aver offerto a Kim Rossi Stuart l’occasione di regalare al pubblico un’interpretazione capace di far rimpiangere una volta di più un’attitudine iperselettiva che lo porta a centellinare le proprie apparizioni sul grande schermo non ostante sia probabilmente il migliore e più sofferto interprete tra gli attori quarantenni che il nostro cinema abbia a disposizione.

Il suo Guido, sempre sospeso tra impulsività patologica, tormenti interiori, frustrazioni lenite attraverso accoppiamenti fugaci e slanci di amore paterno verso due figli che lo sentono così estraneo e distante da chiamarlo col nome di battesimo evitando con cura di usare la parola “papà”, è destinato a lasciare il segno. Ma anche ad offuscare la prova di Micaela Ramazzotti che, pur superandosi nella parte della fragile e repressa Serena (capace però poi di affrancarsi dal torpore e dalla passività esistenziale con una relazione omosessuale ai limiti dello scandalo a dispetto del clima di liberazione sessuale dominante in quegli anni), rischia ormai di sembrare abbonata a personaggi tutti troppo simili a se stessi (si vedano La prima cosa bella e Posti in piedi in Paradiso) per non trasformarla in una nuova Margherita Buy.

Trama

Roma, estate del 1974. Il piccolo Dario assiste insieme al fratellino di cinque anni al progressivo incrinarsi del matrimonio dei genitori, uniti da un amore profondo ma divisi da troppe differenze caratteriali e socioculturali per poter sperare di essere una coppia capace di durare nel tempo. Divenuto adulto, Dario ripercorre con la memoria i momenti salienti di quel calvario sentimentale che coincide con gli anni cruciali della propria adolescenza.


di Redazione
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