Anime nere

Si sa. Nei grandi festival capita spesso che i film premiati facciano poi fatica a uscire nelle sale e, qualora vi approdino anche se con enormi ritardi, vengano snobbati dal pubblico dopo essere stati osannati dalla ristretta élite della giuria che li ha voluti far trionfare. Ma succede ancor più spesso che quelle stesse giurie snobbino ignorandoli del tutto film di grande spessore destinati poi a infiammare gli spettatori comuni nel momento in cui vengono messi in circolazione nella normale programmazione di sala.

Un destino questo che sembra essere toccato ad Anime nere, magnifica tragedia di vita e malavita calabrese che il quarantaquattrenne romano Francesco Munzi aveva portato in concorso ufficiale in laguna trasferendo in immagini terse e tesissime una storia vagamente autobiografica contenuta nel romanzo omonimo di Gioacchino Criaco, giornalista e scrittore calabrese chiamato a collaborare alla stesura della sceneggiatura e a un’attiva consulenza sul campo (da lui conosciuto come le proprie tasche perché nativo di quegli stessi luoghi di epica violenza che fanno da detonatore alla macchina narrativa).

E pensare che Venezia a Munzi aveva portato piuttosto fortuna: esattamente dieci anni fa al suo splendido Saimir era stata infatti attribuita la menzione speciale del Premio Luigi De Laurentiis come miglior opera prima. Un esordio folgorante cui quattro anni dopo aveva fatto seguito il non meno elogiato Il resto della notte, presentato a Cannes nella sezione «Quinzaine des réalisateurs» e ancora una volta, come già il lungometraggio d’esordio, attento a guardare alle vite degli «altri», ovvero a quell’esercito di stranieri senza nome che vivono ai margini di tutto senza riuscire a integrarsi appieno in una società impreparata ad accogliergli.

In questo Anime nere l’attenzione di Munzi si sposta verso una realtà del tutto diversa. Ovvero quell’Aspromonte calabrese in passato spesso al centro delle cronaca nera e di recente molto meno chiacchierato anche se sempre ritenuto terra di nessuno dove le ‘ndrine della ‘ndrangheta organizzano la spartizione e il controllo del territorio circostante nonché l’esportazione di un modello di crimine vincente agendo indisturbate dalla Legge per l’inaccessibilità stessa dei luoghi impervi in cui operano da sempre.

Figli di quella terra aspra ma bellissima (mostrata in tutto lo splendore della sua cruda essenzialità dalla fotografia antituristica di Vladan Radovic che con Munzi aveva già lavorato nei suoi due precedenti film) sono i protagonisti del film, ovvero i tre fratelli Carbone: pur essendo nati e cresciuti nell’area in cui Africo Vecchia si è conquistata a pieno merito il titolo di uno dei centri con la più alta penetrazione criminale la mondo e pur essendo imbevuti in varia misura dei valori atavici che da sempre regolano i rapporti di ancestrale primitività tra le genti della zona, i tre hanno seguito strade diversissime.

Luigi, il più giovane, è un affermato narcotrafficante che opera su scala internazionale tra l’Olanda e il Nord Italia. Rocco, quello di mezzo, è la perfetta incarnazione del criminale in completo Versace che nasconde un abisso di abiezione dietro una facciata perbene: sposato con una bella settentrionale (che «sa» ma fa finta di «non sapere») e con lussuoso appartamento nel centro di Milano, ha un’impresa edile che funge da lavatrice del denaro sporco del fratello Luigi. Il tutto in un perverso business di famiglia che coniuga antiche devianze del malaffare a moderne reinterpretazioni di ruoli esistenti da sempre.

Più tormentato è invece Luciano, il maggiore dei tre: ancorato a tradizioni e valori antichi come la terra in cui vive ma roso dal tarlo di una famiglia segnata dal sangue delle faide tra clan (il padre, contadino, ucciso davanti ai suoi occhi quando aveva solo dodici anni), ha scelto di dedicarsi al mestiere degli antenati facendo il pastore in un paese quasi inaccessibile sulle montagne. Insieme a capre e ad altri animali cerca di domare anche il figlio Leo, ventenne che morde il freno e sogna di emulare la bella vita degli zii paterni opponendosi con la fierezza della sua gioventù già bruciata al destino di povertà rurale che il genitore gli vorrebbe cucire addosso.

Ed è proprio un gesto impulsivo dello sconsiderato Leo a riaccendere la fiamma di uno scontro letale tra clan rivali, sopito sotto le braci di una falsa tregua alla quale ha contribuito non poco l’inatteso benessere garantito dai lauti traffici di Luigi e Rocco a quanti ne beneficano anche soltanto delle briciole. Quando i due fratelli «moderni» tornano al paese per cercare di far mettere la testa a posto al ragazzo, antichi rancori repressi da anni scatenano forze che nessuno riuscirà più a controllare non potendo così evitare che una striscia di sangue e vendette decimi la famiglia Carbone in un redde rationem che ne riprecipita i membri maschi in scenari di un passato troppo remoto per poter essere pensato come realisticamente ripetibile.

Presentato in più di un’occasione come un ‘ndrangheta gangster–movie da iscriversi nel quadro del noir classico di ascendenza vagamente americana, Anime nere è anche ma non solo questo. Partendo dall’idea di voler raccontare una storia di (stra)ordinaria criminalità nostrana senza giudicare né indurre il pubblico a facili moralismi di comodo sul cuore di tenebra di una terra identificata come culla di violenza e barbarie quasi per antonomasia, Munzi allestisce un meccanismo da tragedia greca classica che trascina con veemenza epica verso l’ineluttabilità del baratro finale un manipolo di individui segnati dal destino e impossibilitati a ribellarvisi pur avendo la volontà e i mezzi per farlo.

Se dopo Gomorra di Garrone si pensava fosse impossibile sfornare un film sulla criminalità organizzata all’italiana (e in una delle sue molteplici forme regionali) riuscendo a descriverne in maniera impietosamente realistica riti e falsi miti senza sbrodolare nella retorica né farsi invischiare dal ciarpame delle troppe serie poliziottesche che ammorbano ogni canale TV, Anime nere dimostra invece il contrario.

Dopo la camorra becera e spietata che popolava sia le pagine di Saviano che la trasposizione cinematografica fattane con successo da Matteo Garrone, il pubblico ha qui l’occasione di toccare con mano una realtà che lo stesso Saviano ha più di volta additato in TV e sulle pagine dei giornali scatenando le ire dei pasdaràn della purezza etica del Nord Italia. E cioè quella moderna generazione di ‘ndraghetari che è riuscita a sprovincializzare un modello di criminalità per anni relegato ai margini delle asperità montuose della regione che l’aveva messa al mondo, esportandone il modello di penetrazione tentacolare anche in latitudini che si sono sempre dichiarate immuni dal fenomeno mafioso.

I fratelli Carbone (per lo meno due di essi) sono l’immagine iconica di un mondo criminale che è riuscito a sopravvivere a se stesso adattandosi ai tempi che corrono. E lo ha fatto seguendo un percorso di integrazione etica ed estetica di modelli atavici e primitivi di violenza hobbesiana applicata al crimine a moderni contesti di realtà metropolitane in cui un completo di Versace, una bella moglie, una casa lussuosa e i più classici orpelli del benessere possono regalare forme di impunità assoluta a chi la insegue come ragione ultima di vita.

Asciutto e teso nei lunghi silenzi che lasciano parlare le immagini (in perfetta sintonia col dialetto reggino scelto per imprimere una coloritura ancora più realistica al tutto e sottotitolato in italiano visto che domina la pellicola per un buon 90% della sua durata), il film di Munzi è praticamente perfetto nel trovare il giusto equilibrio tra epos gangsteristico che deve molto ai cliché del genere in cui è iscritto e capacità di descrivere a tutto tondo un mondo pur standone accuratamente ai margini con una programmatica neutralità di visione che dimostra di aver fatto propria la lezione dei grandi maestri italiani del passato.

Ma se Anime nere ha la capacità di trascinare lo spettatore nelle spire della sua climax narrativa che dalla calma apparente degli esordi vira progressivamente verso l’abisso del baratro, buona parte del merito ce l’hanno gli interpreti — tutti calabresi doc — scelti da Munzi per i ruoli dei tre fratelli intorno ai quali ha fatto giostrare una colorita massa di attori non protagonisti scritturati in quelle stesse aree dell’Aspormonte (Africo, Platì, Bova, Siderno e via dicendo) in cui il film è stato girato.

Luigi (che sparisce relativamente presto, vittima della prima ondata di violenza che si abbatte sui Carbone non appena rimettono piede ad Africo) ha la faccia di Marco Leonardi, che per molti sarà difficile collegare a quella del bambino che, ventisei anni or sono, si innamorava del cinema in Nuovo Cinema Paradiso e che da allora si è rivisto in produzioni di casa nostra ma anche in pellicole americane di qualche peso pur non arrivando mai ad avere ruoli di primo piano.

Ma sono i personaggi di Rocco e di Luciano a essere interpretati da due attori talmente in stato di grazia da far sperare che il cinema italiano li possa utilizzare a dovere negli anni a venire. Il fratello patinato che rappresenta la faccia pulita della nuova malavita da esportazione è affidato a Peppino Mazzotta, nome che a molti dice poco ma che per milioni di telespettatori è da oltre tredici anni il pedante ispettore Fazio nella serie TV del Commissario Montalbano.

E se la sua prova gli rende finalmente giustizia dopo tante presenze in numerose altre serie quasi sempre all’insegna dell’abusatissimo sottogenere del poliziottesco all’italiana con contorno di mafia all’acqua di rose, chi rappresenta una sorpresa è Fabrizio Ferracane, altro calabrese di razza chiamato misurarsi col non facile personaggio del fratello capraio rimasto fedele ai valori del passato e allergico (almeno fino al bagno di sangue finale) all’etica della lupara. Il suo Luciano, disegnato più con il semplice uso di una tragica maschera capace di esprimere ogni forma di emozione senza quasi mai ricorrere alla verbalizzazione dei propri stati d’animo, è talmente potente e memorabile da poter tranquillamente essere usato nelle scuole di recitazione come esempio di perfezione assoluta.

Trama

Nel cuore più nero dell’Aspromonte antichi rancori scatenano una spirale di faide incrociate tra clan rivali da sempre. A farne le spese sono i membri di una famiglia tornati al paese per regolare i conti col passato dopo aver fatto fortuna al nord col narcotraffico su scala internazionale.


di Redazione
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