Ana Arabia
Iniziamo dalla conclusione. La macchina da presa, dopo un lento e fluido movimento durato quasi ottanta minuti, improvvisamente inizia ad alzarsi. Dolcemente, si palesa davanti al dispositivo ottico una zona caratterizzata da casupole. Sullo sfondo enormi palazzoni popolari si ergono come sentinelle di un universo privato e nascosto. L’ampia inquadratura lascia intravedere lo scorrere della vita nella città.
Quello appena descritto è uno spazio appartato posto ai limiti di Giaffa e che si affaccia sulla città di Bat Yam. Siamo sulla direttrice sud che prende avvio da Tel Aviv: la metropoli israeliana, la città che non dorme mai, piena di cultura, di locali, di artisti e di giovani.
Con l’immagine sopra evocata, Amos Gitai ha deciso di chiudere il suo ultimo lungometraggio: Ana Arabia. Come capita spesso nelle opere dell’autore di Yom Yom e Devarim, il quadro visuale conclusivo racchiude in sé il senso del film, raffigurazione allusiva in cui tutto è immaginato e allo stesso tempo compreso. La particolarità linguistica di questa prova registica riguarda il modo in cui è stata realizzata: attraverso un unico, lunghissimo, piano sequenza della durata complessiva di ottantuno minuti. La volontà di non utilizzare il montaggio in senso classico è una delle ossessioni espressive di Amos Gitai, artista che privilegia la scorrevolezza del racconto e la costruzione senza interruzioni del significato dell’opera.
La vicenda di Ana Arabia è collocata in un sito cittadino decisamente non convenzionale. È, di fatto, un’isola incuneata tra ambienti metropolitani dove vivono alcuni interessanti personaggi insieme alle loro famiglie. Si tratta per lo più di arabi, persone molto cortesi e disponibili che hanno scelto una vita semplicissima, vera e tranquilla.
Eppure, la loro serenità apparente cela storie difficili, dolorose e non sempre limpide. E proprio di queste storie, si nutre la bella e giovane giornalista israeliana arrivata sul posto per un’inchiesta giornalistica su una sopravvissuta alla Shoah, sposatasi con un palestinese e convertitasi all’islam. La donna non è più viva, ma il marito, i figli e gli abitanti del posto conservano la memoria di una collettività stravagante, se non addirittura unica.
Amos Gitai con la lucidità e l’eleganza che contraddistingue i suoi film evoca un mondo possibile: pacifico, basato sulla convivenza e lontano dall’idea del conflitto. Il regista israeliano non indica tanto una strada da percorrere quanto la possibilità di un sogno che potrebbe trasformarsi in realtà solo se gli esseri umani lo desiderassero veramente.
La macchina da presa veleggia leggera da un cortile all’altro, entra nelle case, si ferma sugli individui. Lo spettatore non può fare altro che immedesimarsi nella giornalista israeliana e porsi nella condizione dell’ascolto, una condizione fondamentale per comprendere l’altro.
Il tono del film non è mai pesante, anzi è caratterizzato da una tenuità espressiva che scaturisce non solo dall’impostazione stilistica ma anche grazie alla naturalezza con la quale tutti gli interpreti (nessuno escluso) recitano.
Quando, alla fine, la macchina da presa lascerà il quartiere per un ultimo sguardo aereo, tutti noi (così come la giornalista israeliana) avremo l’impressione che forse non ritroveremo più questo posto ma anche che ciò che gli abitanti del luogo ci hanno regalato rimarrà sempre con noi.
Trama
Una giovane giornalista di Tel Aviv si reca in un angolo nascosto di Giaffa per effettuare un’inchiesta su una donna sopravvissuta alla Shoah che aveva deciso di sposare un palestinese e di convertirsi all’islam. La donna non è più viva, ma la sua famiglia vive ancora nella zona che era stata segnalata alla giornalista. La ragazza entrerà così in contatto con un mondo sconosciuto che provocherà in lei forti emozioni.
* Si ringrazia la testata giornalistica Cultframe – Arti Visive per aver concesso il testo
di Maurizio G. De Bonis