American Sniper

L’eroe di American Sniper è il supercecchino Chris Kyle, educato dal padre a scattare in difesa dei deboli e della nazione tutta, autore in Iraq di almeno 160 uccisioni in campo nemico. Un colpo e via, da lontano. Dei cinque anni in cui serve il suo paese ne trascorre almeno tre in territorio nemico, occhio al mirino, a salvare la pelle dei commilitoni dalle aggressioni di uomini, donne e bambini iracheni. Ne esce piuttosto deragliato nella psiche, finché un reduce messo peggio di lui lo fredda in un poligono di tiro. L’ultima sequenza è un condensato delle riprese amatoriali dei funerali del vero Chris Kyle, affollati di veterani e di ammiratori, commossi e increduli per l’imprevedibile uscita di scena del cecchino più letale della storia d’America; solo l’anno prima si era raccontato in un’autobiografia divenuta best seller, la stessa che ha fornito titolo e soggetto al film.

Ora, il problema di American Sniper è decidere se sia più corretto trattarlo come l’opera n°34 di Clint Eastwood o come un normale dignitosissimo film di guerra. Con Woody Allen, e più di Scorsese e Spielberg, Eastwood è l’unico cineasta in attività dagli anni Settanta che sia oggi in grado di mettere fuori in media un titolo l’anno; ma a differenza dei colleghi citati i suoi film non vantano lo stesso grado di controllo autoriale. Non tutti almeno. Sulla scorta di opere come Gli Spietati, Mystic River, Million Dollar Baby o Gran Torino, larga parte della critica ha creduto di individuare nella sua filmografia le stimmate di un autore autonomo e coerente; eppure alcune volte (questa è una) quello di Eastwood sembra essere più cinema d’apparato, una grande produzione in cui lo sguardo del regista non riesce predominante sull’impostazione degli sceneggiatori, sulle scelte di montaggio, sul ristorno spettacolare imposto dall’impiego di ingenti capitali. Se il suo nome non apparisse fra i credits, J. Edgar, Jersey Boys e American Sniper potrebbero appartenere a tre registi differenti, nessuno dei quali necessariamente Eastwood. Perciò la visione di American Sniper risulta poco sovrapponibile ad altri bellici di Eastwood (da Gunny a Flags of our fathers), così come appare pretestuoso paragonare il valoroso cinismo di Kyle al nichilismo del Callaghan di Siegel o del cowboy di Leone.

American Sniper guadagna di più se lo si vede come esempio del classico genere bellico, con il protagonista che segue l’irresistibile richiamo della difesa della patria, l’addestramento allucinante, il battesimo di sangue nel primo giorno di vera azione, le vittorie e le perdite, le vendette e i contraccolpi psicologici, e tutto il consueto corollario di modi e di situazioni, dal linguaggio fitto di “fuck!”, “uomo a terra!”, “riportiamo il culo a casa!”, alle bandiere ripiegate in mano alle vedove. Un film bellico girato con tutti i crismi della cinematografia Usa degli anni Duemila, ossia rimodernato da un uso sempre più sofisticato di riprese e montaggio (qui di montatori ce ne sono ben due). Con un scene di battaglia emotivamente forti, fisiche, in presa diretta, sulla scia della prima seminale mezz’ora di Salvate il soldato Ryan (non a caso Eastwood ha ereditato il progetto da Steven Spielberg). Un film scenograficamente aderente a luoghi e situazioni storiche (gli agguati a Falluja e gli inseguimenti nella labirintica Sadr City ricreati nella marocchina Rabat). Interpretato da attori che aderiscono ai personaggi con generosità e realismo (da Bradley Cooper, ingrassato e irrobustito come un bue, a Sienna Miller che mette la sua bellezza sfiorita al servizio del ritratto di una donna orgogliosa del proprio uomo e insieme ferita dal suo comportamento). Un film, e questo è forse il punto più importante, attentissimo a non buttarla in retorica e insieme a evitare l’apologia del pacifismo o, peggio, il dileggio dei militari di professione.

In tempi di Isis non è umanamente possibile fare un film che celebri una cosa orrenda come la guerra, e infatti anche American Sniper ne mostra esplicitamente gli orrori e i guasti, anche oltre il campo di battaglia; ma dopo l’11 settembre non è più neanche semplice fare film per condannarla, a meno che, come in The Water Diviner, non si tratti di conflitti sufficientemente lontani nel tempo. Si cerca allora – è la lezione di The Hurt Locker e Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow – di raccontare la sua crudeltà in modo chirurgicamente nitido e tecnologicamente accurato, glorificandone al tempo stesso i protagonisti (del proprio campo). E’ quello che American Sniper vuole e riesce ad essere: un’americanissima ode al singolo che per difendere la comunità diventa eroe, un film che pur non nascondendo i dubbi aderisce obbedientemente alla visione degli Stati Uniti come cane da guardia internazionale. Che sia un buon film è fuori di dubbio, lo è altrettanto che la sua morale sia piuttosto semplicistica: comunque la si pensi, la figura del cecchino divenuto leggenda per la sua mira letale si prestava a un ritratto più complesso.

TRAMA

Il texano Chris Kyle impara a sparare fin da bambino, educato dal padre alla difesa della famiglia e dei più deboli. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, Chris si arruola nei Navy Seals; nel giro di cinque anni partecipa a quattro missioni in Iraq dove diventa famoso come un cecchino dalla mira infallibile. Dopo mille giorni di vita militare, Chris decide di tornare a casa, dalla moglie Taya e dai due figli. Tormentato da una guerra che non è mai andata via dalla sua testa, cerca di risollevarsi dedicandosi ad altri reduci. Sarà infine uno di loro, stravolto da sindrome post traumatica, a ucciderlo nel 2013 in un poligono di tiro.


di Alberto Anile
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