American Pastoral
Alla sua prima regia, il noto e apprezzato attore Ewan McGregor si impone una prova dagli esiti tutt’altro che scontati: l’adattamento cinematografico del romanzo Pastorale Americana di Philip Roth (Premio Pulitzer per la narrativa nel 1998), storia dolorosa e disperante della dissoluzione di una famiglia, diluita nell’arco di alcuni decenni. Inevitabilmente, come sempre succede quando la parola scritta passa al setaccio del cinema, quel che viene diradato e sfrondato è anzitutto il corpus narrativo, perché i tempi e i modi della cinematografia impongono la sintesi, il taglio, l’ellissi. Ciò che invece non si dovrebbe mai assottigliare durante questo processo di trasposizione è la consistenza dei personaggi, la credibilità delle ragioni che ne muovono le azioni e ne accendono i sentimenti, lo spessore del loro vissuto in senso storico e psicologico. Ed è proprio sotto questo aspetto che American Pastoral dà luogo a più di qualche perplessità; il racconto si espande su una superficie (troppo) vasta nella sua pretesa di abbracciare molti argomenti tra loro diversi e peraltro complessi: rapporti familiari e genitoriali, patologie e conflitti psicologici, scontri generazionali e infine tensioni politiche che appartengono alla grande Storia. Si rintraccia cioè un ampio movimento in orizzontale al quale non ne corrisponde, a conti fatti, uno in verticale, che sia discesa in profondità, volontà di scavare dentro e sotto le cose. Se questo non avviene, le azioni dei personaggi – che qui sono, letteralmente, deflagranti, estreme, senza rimedio – rischiano di venire pericolosamente appiattite e demotivate, se non di restare sospese, irrisolte, sfuocate.
La materia letteraria offerta da Roth si impernia essenzialmente sui temi del conflitto, della caduta, della disillusione: una quotidianità apparentemente perfetta viene sconvolta dalla sofferenza più straziante, e si assiste in pratica alla totale distruzione di un sogno. Esattamente da qui, dalla dicotomia fortuna/disgrazia, riparte McGregor – con le migliori intenzioni – per descrivere il protagonista Seymour Levov, detto lo Svedese, da lui stesso ottimamente interpretato. Prima campione sportivo ammirato da tutti, poi imprenditore di successo, lo Svedese conquisterà e sposerà la giovane e seducente Miss New Jersey (una bravissima Jennifer Connelly), con la quale avrà una bambina, Merry, graziosa e intelligente. Una vita serena, un lavoro solido e soddisfacente, una grande casa di campagna, l’affetto della famiglia: nessuna nuvola all’orizzonte.
Tuttavia, questo idilliaco quadretto familiare andrà inaspettatamente in frantumi quando, durante gli anni caldi della guerra in Vietnam, la figlia ormai adolescente – insofferente, irrequieta e (improvvisamente?) politicizzata – compirà un attentato dinamitardo, uccidendo un uomo innocente per poi fuggire in clandestinità.
Il film è soprattutto il racconto del tentativo ostinato, logorante e straziante di un padre sconvolto e smarrito di ritrovare la propria figlia: sia in senso materiale che emotivo. Nulla da eccepire sull’intenso e coinvolgente lavoro degli attori, sugli aspetti tecnico-formali e sui ritmi narrativi. Efficace e credibile è anche la descrizione dell’imperturbabile amore paterno del protagonista, che paradossalmente sembra rafforzarsi proprio man mano che viene impietosamente messo alla prova.
A non convincere pienamente, dunque, non è tanto ciò che sta nel film, quanto ciò che il film decide invece di lasciare fuori campo. Ad esempio, la complessità e il valore dei movimenti politici dell’epoca, che qui oscillano tra l’essere colpevolmente semplificati oppure, addirittura, demonizzati (poiché ne viene descritto solo il lato oscuro, ambiguo e violento); in secondo luogo, il percorso di Merry e le tensioni sottese che la portano a compiere un atto ingiustificabile, e in seguito a cercare una penosa redenzione, paradossalmente restano a margine, non vengono mai palesati né indagati. E’ possibile che l’intento del regista fosse, in questo caso, quello di far coincidere lo sguardo spettatoriale con quello del padre Seymour, che soffre appunto perché non sa. Ma la conseguenza di questo stato di cose è la sensazione che il racconto sia parziale, incompleto, lacunoso. Allo stesso modo, l’interessante ritratto di Dawn – la moglie – risulta eccessivamente compresso ed ellittico, e le sue crisi emotive e psicologiche non trovano lo spazio descrittivo che meriterebbero. Se insomma il regista-protagonista McGregor avesse avuto l’accortezza di dedicare all’evoluzione e alla storia delle co-protagoniste la medesima attenzione che riserva a se stesso, American Pastoral avrebbe guadagnato non solo un respiro ben più ampio ma soprattutto una maggiore profondità e autenticità.
Trama
Seymour Levov, detto lo Svedese, è ammirato e invidiato da tutti: prima campione sportivo e poi imprenditore di successo, sposerà la giovane e bellissima Miss New Jersey, che gli darà una splendida bambina. Il suo destino cambierà però inaspettatamente e bruscamente di segno quando la figlia, ormai adolescente, commetterà un attentato terroristico.
di Arianna Pagliara