All’armi siam marcisti
La marcia su Roma nel cinema italiano: Anton Giulio Mancino passa in rassegna i film in cui questo evento storico è diventato cartina al tornasole dell'evoluzione della nostra cinematografia e della situazione politica nazionale.
La marcia su Roma come infausto atto epocale che ipoteca la storia italiana del ventesimo secolo ha assunto sullo schermo connotazioni reiterate e variabili. A inaugurare l’elenco orizzontale dei titoli lungo l’asse cronologico elementare è Vecchia guardia (1934) di Alessandro Blasetti che della mitologia della marcia si appropria come finale promettente. La propaganda della marcia si riaffaccia poi in Redenzione (1943) di Marcello Albani.
I quasi dieci anni che separano Vecchia guardia da Redenzione finiscono per arricchire di senso paradossale la curiosa coincidenza numerica che avvicenda le due opere invertendo la coppia di cifre finali e con esse il destino della nazione: dal “34” di Blasetti al “43” di Albani, insomma, il mondo e le sorti della guerra, ormai alle ultime, tremende battute, trasformano quella marcia svoltasi alla fine di ottobre del 1922 in un fantasma mutante che si adatta di continuo alle circostanze, simulando lo spettacolo inquietante del prima per avanzare ombre sinistre sul dopo.
Il film capofila del dopoguerra che della marcia diuturna eredita le vestigia fino ad allora ancora impresentabili è il collettivo Amori di mezzo secolo (1954), limitando il richiamo al solo episodio Dopoguerra 1920 di Mario Chiari con Alberto Sordi. Su un binario parallelo, è il caso di dire, corre Destinazione Piovarolo (1955) di Domenico Paolella, spesso dedito al sistematico ridimensionamento dell’ottimismo storico-politico legato al dopoguerra e al superamento della cosiddetta “era fascista”.
Al fascismo e alle sue più estreme propensioni ideologiche Paolella in particolare aveva aderito, non senza entusiasmo e profonda convinzione, salvo poi adattarsi ai tempi mutati, volgersi scetticamente al passato e al presente stabilendo tra fascismo e antifascismo o post-fascismo, guerra e pace, ragione e passione, amore e politica, una provocatoria e distaccata equazione dal sapore molto retrò. Donde la critica al trasformismo contenuta in Destinazione Piovarolo, dove l’onorevole del Partito Popolare interpretato da Giacomo Furia si unisce nel 1922 al convoglio ferroviario dei fascisti in marcia verso Roma, salvo poi negare anche lui quei trascorsi quando a guerra finita è tra le autorità locali che ripristinano il nome di Piovarolo, dopo la stagione nera in cui era stato ribattezzato nientedimeno che Rocca Imperiale.
Ma il vero ritorno del rimosso fascista fa seguito all’esaurirsi del Governo Tambroni, a capo dell’esecutivo supportato da una maggioranza di centro-destra. I poco più di quattro mesi a cavallo tra la primavera e l’estate del 1960 offrono l’opportunità ad altrettanti film, appunto quattro, di far riferimento alla genealogica marcia. A latere quindi della trama e con richiami non casuali nel nuovo team di registi che firma Cronache del ’22 (1961), e a seguire ridendo e non scherzando in Gerarchi si muore (1962) di Giorgio Simonelli e Totò diabolicus (1962) di Steno. Fino al titolo che chiama in causa direttamente l’evento in questione, non più innominabile: La marcia su Roma (1962) di Dino Risi con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, sulla falsariga dell’accoppiata sempre di Gassman però con Sordi ne La grande guerra (1959) di Mario Monicelli.
La marcia su Roma, con la breve stagione dell’esecutivo Tambroni immediatamente alle spalle e i primi segnali di strategia della tensione, tra il “tintinnare di sciabole” proto-golpista e i segnali in aumento di neofascismo come misura di contenimento delle esperienze complesse e cangianti dei governi di centro-sinistra, non è tuttavia la replica di una formula di successo che agli inizi degli anni Sessanta, dopo La grande guerra, investe la storia del cinema italiano o per meglio dire induce il cinema italiano a investire sulla storia, possibilmente contemporanea. La marcia su Roma suona e si dà a vedere come avvertimento. Il campanello d’allarme, politicamente parlando, è stato il 1960 con i suoi 123 giorni di prova generale in nero.
Eppure, a ben guardare, qualcosa la lascia intendere già Gerarchi si muore con il personaggio del commendator Frioppi, ovvero Aldo Fabrizi, che allestisce in giardino una tenda da campo per mantenersi in allenamento dopo averla utilizzata nel vagheggiato 1922. Con qualche approfondimento supplementare, ammesso che se ne voglia verificare la genesi, Gerarchi si muore sussurra ciò che invece Totò diabolicus dichiara quando uno dei tanti Totò, nei panni del nostalgico Scipione di Torrealta, definisce “marcista” l’ispettore Scalarini, interpretato dalla storica spalla Mario Castellani, avendo costui preso parte all’inammissibile marcia del 1922.
A monte c’era stata nel fatidico anno di Tambroni la rivelazione finale del pasticciere Cocozza (Totò) sul ragionier D’Amore (Fabrizi) in Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi (1960) di Mario Mattoli, in anticipo sul montaggio storico-documentaristico di All’armi siam fascisti (1962) di Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Micciché, che diversamente punta l’indice su “marcisti” vecchi e nuovi insofferenti dei nemici “marxisti”.
L’insistenza riproduttiva e allusiva a un tempo, evocativa o rievocativa, rende l’impatto di immagini ricreate ad hoc, di repertorio o miste, una cartina di tornasole oltre che una cassa di risonanza, a seconda del momento in cui il cinema o la televisione (si pensi a Tecnica di un colpo di Stato: la marcia su Roma, la miniserie in quattro puntate diretta da Silvio Maestranzi, andata in onda tra dicembre 1978 e gennaio 1979), diversificandone le occorrenze, sceglie di occuparsene, con effetto attivo o retroattivo.
La sapida lezione di storia che si ricava da questo rapido elenco di titoli salienti, certamente approssimativo per difetto, va ricercata in un curioso “grazie” che Luchino Visconti volle rivolgere all’autore di Vecchia guardia, al termine di una proiezione avvenuta nell’immediato dopoguerra, che aveva gettato i presenti nello sconcerto. Come non riconoscere in quel film i tratti del neorealismo incipiente? Come non ammettere le contraddizioni di un cinema di propaganda inviso allo stesso regime che non aveva apprezzato l’omaggio “marcista” di Vecchia guardia?
Ricorderà Luigi Freddi in proposito: «Nei primi giorni della mia nomina io venni invitato a vedere un film, appena finito, in una di quelle proiezioni che si chiamano “visioni private”… Il film si intitolava Vecchia guardia. Io ero contrario a quei film e avrò modo in seguito di spiegarne ancora meglio le ragioni. Durante la proiezione – pur essendo l’opera, cinematograficamente, assai ben congegnata – io ebbi l’impressione di trovarmi sotto un garbato ricatto morale. Dentro di me pensavo che il mio dovere sarebbe stato di bocciare il film, anche per fare un’affermazione di principio, in quanto il regime, secondo me, non aveva certo bisogno di quelle riesumazioni e di quei lenocini, che invece potevano suscitare e provocare reazioni dannose. “L’esprit n’est point ému de ce qu’il ne croit pas”, ammonisce il Boileau. Non proibii il film, limitandomi a lasciargli percorrere la sua carriera. Il film, che seguì un destino normale in Italia, ebbe invece un enorme successo presso le sfere ufficiali in Germania, ove il regista Blasetti e il piccolo protagonista vennero addirittura ricevuti da Hitler con un altisonante contorno di festeggiamenti e di “comunicati”. Questo fatto venne rimbalzato in Italia come un solenne rimprovero alla freddezza con cui avevo considerato il film, cercando di farla passare come ignoranza cinematografica e tiepidezza o insensibilità politica. È certo che se la censura, secondo i miei criteri, avesse funzionato all’origine quel film non si sarebbe fatto».
Cosicché quella volta fu Visconti, nel pieno del fermento neorealista, a togliere tutti dall’imbarazzo: «Grazie, Blasetti! Hai detto proprio bene: quei tempi non bisogna dimenticarli. E tu ce li hai ricordati in tutta la loro drammaticità».
di AntonGiulio Mancino