Allacciate le cinture
Per il suo ultimo film il regista Ferzan Özpetek torna a girare nel barocco leccese che era già stato teatro del riuscitissimo Mine vaganti.
A tutti può capitare di sbagliare un film. Soprattutto se, come nel caso di Ferzan Özpetek, un autore ha abituato il suo pubblico a continui cambi di genere, toni e registri nonché di vicende raccontate sul grande schermo. Ma c’è modo e modo di sbagliarlo un film e con questa sua undicesima fatica dietro la macchina da presa il regista istanbuliota ma romano di adozione lo ha fatto sfornando un ibrido di troppi generi che avrebbe potuto essere molte cose ma che alla fine non ne è probabilmente nessuna.
Tornando a girare nel barocco leccese che era già stato teatro dell’invece riuscitissimo Mine vaganti, Allacciate le cinture racconta infatti una storia d’amore, tradimenti, amicizie e molto altro che parte col brio della commedia regionalistica (pur raggruppando a Lecce un insieme di personaggi accomunati dal fatto di non avere l’accento leccese), per poi proseguire con la melassa della commedia sentimentale con coloriture vagamente drammatiche (una donna porta via l’uomo alla migliore amica), si avvita nelle spire dell’analisi sociologica sulla crisi della coppia e infine sfocia nei toni cupi del melodramma ospedaliero. Senza però che si abbia il coraggio di spingerlo fino alle sue estreme conseguenze da fazzoletti alla mano perché il vero finale riserva un lungo flash-back che dispensa al pubblico – già un po’ fiaccato dalla sbornia di generi attraversati – una carezza di fiducioso ottimismo relegato però al passato con occhiate speranzose verso il futuro.
Elena è una giovane intraprendente che, pur facendo soltanto la barista, sogna un domani di successo come imprenditrice nel campo della ristorazione e dell’intrattenimento. Sta con Giorgio, figlio invece di una famiglia bene della Lecce che conta il quale la ama ricambiato ed è pronto a sostenerla nei suoi ancora vaghi progetti imprenditoriali. Ma la vita è in agguato con uno dei tanti scherzi da prete che ama giocare alle esistenze dei bistrattati umani. Quando Elena conosce Antonio, fidanzato della sua migliore amica Silvia, non può prevedere che diventerà l’uomo della sua vita perché è l’esatto opposto di quello che la può attirare in un rappresentante dell’altro sesso: rozzo, ignorante, cafone, volgare e (come se non bastasse) anche pesantemente omofobo.
Tant’è, tra i due scoppia la chimica fatta prima di sguardi allusivi e poi di approcci sempre più pericolosi sulla scorta di attrazioni ferine che confermano non solo la cecità dell’amore ma anche la sua capacità di anestetizzare il senso critico di un individuo. Gli esiti della fortunata reazione chimica di cui sopra lo spettatore li vede subito grazie a un salto cronologico che condensa tredici anni di biografie in un giro di fotogramma: Elena e Antonio stanno insieme da quando il salto in avanti è cominciato, hanno due figli, lei è diventata l’affermata gestrice di un bel disco-bar (in un ex stazione di servizio convertita in luogo trendy per la meglio gioventù leccese) insieme all’amico gay di sempre e tutto sembra proceda alla grande.
Ma le cose non stanno così. Presto si scopre che tra Elena e Antonio sono più spine che rose: lui è uno sciupafemmine impenitente che ne fa contente tante (moglie esclusa) e che di fatto si fa mantenere mentre lei sgobba divisa tra il ruolo di manager sgobbona del locale e quello di madre affettuosa e attenta alle esigenze dei figli. Inevitabile che siano scintille di continuo. A questo punto, con il dramma borghese della coppia scoppiata alle porte, ecco che arriva in aiuto ancora una volta la Vita a salvare la sceneggiatura da un finale prevedibile: Elena scopre quasi per caso di avere un tumore al seno. Da quel momento in poi, il tono si incupisce: parte il calvario solito di sessioni di chemioterapie, parrucche per coprire la calvizie, ricoveri con vicine di letto sempre più emaciate e la Morte che cavalca accanto alla protagonista mentre il rozzo marito ci mette molti minuti a capire la gravità della situazione.
Ma, come diceva già Virgilio molti secoli addietro, amor omnia vincit: mentre Elena si riduce allo spettro di se stessa nella via crucis cui la malattia la costringe, Antonio scopre cosa voglia dire amare davvero. In una scena (insieme a quella in stile Laguna blu ripetuta ben tre volte) destinata a essere ricordata come il peggio del cinema di un autore capace di grandi momenti di cinema qual è Ferzan Özpetek, l’ex macho descritto come uno “che non riesce a tenerlo dentro i pantaloni” si accoppia con la moglie sul letto di ospedale per dimostrarle come l’affetto sia svincolato dall’attrazione fisica e nasca stilnovisticamente soltanto dalle parti del cuore.
Ma lo spettatore potrà solo immaginare quale sia il destino di Elena: dopo un’allucinazione in cui la donna – fuggita dall’ennesimo ricovero a seguito della morte della vicina di letto – vede Antonio risposato con una delle sue amanti del passato, si torna indietro tredici anni prima per farsi riscaldare il cuore con un lungo flash-back che svela quanto tutti in sala hanno già capito e cerca di stemperare il dolore disseminato nell’ultima mezz’ora con qualche manciata di ottimismo alla buona.
Incerto tra i troppi generi che attraversa, Allacciate le cinture (titolo metaforico che allude alla reazione che si deve avere quando si incontrano turbolenze in questo caso di natura puramente esistenziale) più che un film è un insieme di film la cui intenzione originaria – e non troppo originale – era forse quella di innalzare un inno alla forza dell’amore e alla sua capacità di far superare ogni forma di ostacolo. Causa però gli eccessivi squilibrî di tono tra le varie parti e la difficoltà di ricucirle insieme senza che i rammendi narrativi risultino troppo evidenti, il film non riesce però mai a decollare, lasciando in chi guarda la sensazione di incompiutezza che lasciano sempre le opere in cui l’ambizione supera di gran lunga la riuscita finale.
E se questo accade lo si deve anche al fatto che Özpetek non fa nulla per evitare di infarcire il film con una specie di mini enciclopedia di tutto quello che è diventato una specie di marchio di fabbrica del suo modo di fare cinema: ecco quindi l’inevitabile teatrino della diversità sessuale (l’amico del cuore di Elena ma anche la madre e quella che intenzionalmente non si capisce se ne sia la sorella o l’amante) che in anni passati aveva la forza della denuncia con la simpatica sfrontatezza dell’outsider estraneo al perbenismo italiota e che qui invece sembra ormai un tono di colore destinato a strappare solo qualche sorrisetto sforzato agli spettatori meno addestrati alla palestra umana che è la filmografia del regista turco-romano.
Regista che, contrariamente a quanto accaduto in quasi tutti gli altri suoi film, in questo Allacciate le cinture sembra piuttosto infelice anche nella scelta del cast: se Kasia Smutniak dimostra di avere ormai digerito il passato di modella e riesce a rendere credibile il personaggio che le è stato cucito addosso, lo stesso non si può dire per Francesco Arca, cui è toccato invece il ruolo del rozzo Antonio: ex tronista (!) sdoganato da TV di Stato e non (è Il commissario Rex nella sesta serie battente bandiera tricolore nonché nel cast del non certo memorabile Le tre rose di Eva 2), è un fustaccio tutto muscoli e sguardo torvo da coatto di razza che non riesce quasi mai a capire cosa voglia dire cambiare espressione a seconda della scena interpretata.
E non va meglio con le scelte dei comprimari: se il ventenne Scicchitano (che aveva fatto gridare al miracolo in Scialla ma che già in Una giornata speciale aveva spinto molti a cambiare idea in proposito) è poco credibile nel ruolo dell’amico e socio gay della protagonista dando sempre l’impressione di essere in libera uscita da una brutta fiction TV, sembrano ancora più spaesate e fuori luogo Carla Signoris (madre di Elena) ed Elena Sofia Ricci (la zia o l’amante della madre a seconda dei punti di vista), proprio perché interpreti di siparietti spesso surreali che rappresentano involontariamente i soli momenti in cui il film respiri davvero.
A poco è valso infine che gli attori siano stati sottoposti dal regista a un vero tour de force dal vago sapore hollywoodiano per perdere (Smutniak e Scicchitano) o acquistare (Arca) chili senza trucchi digitali ma solo attraverso un’assurda dieta forzata che ha fatto sospendere la lavorazione del film per un mese: questo tocco di realismo spinto (che però non è stato adoperato per evitare l’effetto straniante causato da una famiglia di Lecce nella quale nessuno ha l’accento pugliese e da una protagonista che non può nascondere di essere straniera pur mettendocela tutta) non è servito a salvare un film che, forse nelle intenzioni del suo autore, voleva essere il tentativo di riconquistare la consistente fetta di pubblico persa coi fantasmi teatrali di Magnifica presenza riportando il tutto sulla terra grazie all’ennesima variazione sul tema dell’amore capace di far superare ogni ostacolo e di vincere ogni freno inibitore.
Trama
Nonostante abbia una vita equilibrata e un fidanzato che ricambia il suo amore, Elena vede sbriciolarsi tutte le certezze che l’hanno sempre accompagnata quando incontra il compagno della sua migliore amica di cui si invaghisce perdutamente nonostante rappresenti tutto ciò che ha sempre detestato in un uomo. Dopo tredici anni di passione travolgente anche se spesso altalenante, i due sono chiamati dalla vita ad affrontare con maturità una prova molto più ardua per la quale è necessario allacciarsi le cinture per resistere a pesanti turbolenze emotive.
di Redazione