Alice in Wonderland
Chi si aspettava dall’ultimo film di Tim Burton una versione dark del classico “mondo delle meraviglie” disneyano di sicuro non è rimasto deluso: nel fossato del palazzo della Regina di Cuori galleggia un’infinità di teste mozzate, il cielo sotto cui il Cappellaio Matto e la Lepre Marzolina prendono il tè è plumbeo, pesante, cupo, e nel bosco che Alice attraversa sono in agguato creature non solo fantasiose ma soprattutto pericolose. Come accade spesso nei mondi onirici e dolcemente angosciosi di Burton, anche in questo caso la cura per i costumi e per le scenografie è notevole. Significativo e suggestivo è il lavoro di computer grafica che permette al luogo di sogno esplorato dalla protagonista di materializzarsi in tutta la sua misteriosa perfezione: foreste oscure e valli desolate, architetture lugubri (il castello della perfida Regina Rossa) oppure candide e magnifiche (quello dell’amabile Regina Bianca), giardini incantevoli – a cominciare da quello, tutto “terreno” e “reale”, delle sequenze iniziali, in cui Alice è ancora nel mondo della normalità – e ancora, paesaggi surreali, come quello in cui si consuma lo scontro finale tra forze del bene e quelle del male: uno spiazzo vuoto sovrastato da antiche rovine, dove sotto grumi di nubi scure si affrontano eserciti di scacchi e carte da gioco. Meraviglioso, è il caso di dire, l’impianto scenografico e visivo del film insomma; quello che però, fin da subito, non convince appieno, è la costruzione della storia e dei personaggi. Iniziamo con il dire che quello raccontato da Burton è un ritorno, un secondo viaggio: Alice è cresciuta, e stavolta non segue il coniglio bianco per evitare una noiosa lezione di storia (come accadeva nel vecchio film d’animazione della Disney) ma per sfuggire alla sua festa di fidanzamento con un giovane – poco gradevole a dire il vero – rampollo dell’alta società. E’ sempre comunque l’insofferenza per un mondo conformista e restrittivo la molla che fa scattare la storia, e che permette l’inizio del viaggio, ma stavolta il percorso della ragazza nel mondo magico sarà strutturato in maniera completamente diversa.
La storia di Lewis Carrol affascina per gli abissi profondi che spalanca, per la pregnanza degli argomenti che chiama in causa, che si stratificano in maniera quanto mai complessa. Di tutto questo però nel film di Burton non c’è più traccia, né della riflessione sulla crescita e sull’adolescenza, né del rapporto complesso e oscuro col proprio inconscio e con le ambiguità del mondo, né, soprattutto, di quell’apertura a vivere una dimensione anarchica, libera e misteriosa che caratterizza, in origine, il personaggio di Alice. Perfino nel noto cartone animato della Disney la protagonista manteneva quello stupore affascinante che era in fondo la sua prerogativa: uno stupore prodigioso segno di una totale, spiazzante perdita del controllo sulle cose, ovvero l’abbandono definitivo all’universo del sogno. Ma questo secondo capitolo disneyano (e insieme burtoniano) annulla, in pratica, i risultati raggiunti nel primo, e a niente serve, in questo senso, la regia di un grande autore come Burton, che qui cede immancabilmente ad una struttura narrativa convenzionale e poco intrigante, in cui tutto sembra essere predeterminato e “preconfezionato”.
L’essenza di questo “mondo delle meraviglie” è fortemente segnata da un netto rifiuto delle feconde, enigmatiche, caotiche dinamiche del caso, che invece dovrebbero essere elemento fondante e peculiare della storia di Alice. Alla protagonista, appena giunta tra le strane creature, viene infatti mostrata una preziosa pergamena in cui sono raffigurate le sue future gesta: sarà una gloriosa eroina, una paladina delle forze del bene contro un mostro malvagio. E così come la ragazza, per forza di cose, finirà per mettere in atto ciò che la pergamena ha prestabilito, allo stesso modo il film procede su un copione che appare poco fresco, che sa di “fantasy” più che di fantastico, che non lascia spazio e non rende giustizia, insomma, alla sensibilità dell’autore dell’indimenticabile Edward mani di forbice e del commovente Big Fish. Questo per ricordare che i mondi bui e favolosi del regista americano solitamente trovano credibilità proprio nella loro, spesso dolorosa, complessità, così come i suoi personaggi fiabeschi che, pur restando tali, non sono mai banalmente suddivisi in “buoni” e “cattivi” come accade invece, per certi versi, in Alice in Wonderland. In conclusione, sebbene il film conquisti lo spettatore per la potenza e l’inventiva figurativa, è lecito sperare che in futuro Tim Burton (ri)metta la sua inimitabile fantasia visionaria a servizio di una sostanza più densa di contenuti e significati, in cui possano muoversi personaggi descritti con maggiore profondità e rinnovata originalità.
di Arianna Pagliara