Alexandra
Aleksandr Sokurov è il regista dei film impossibili, delle opere linguisticamente estreme, dei racconti atemporali, delle pause infinite, delle riflessioni interiori. Ma anche delle visioni dilatate, all’interno di un universo concettuale che affonda le sue radici in un’idea della narrazione totalmente distaccata dai codici della cinematografia tradizionale.
Silenzi e dialoghi quasi non udibili, sguardi sul mondo e improvvise virate verso una dimensione astratta del procedere della storia, percorsi soggettivi anonimi e raffigurazione delle giornate private di personaggi storici (Hitler, Lenin, Hirohito), Sokurov è artefice di una cifra poetica del tutto personale, forse unica nel panorama cinematografico mondiale. A queste caratteristiche risponde anche il suo ultimo lungometraggio, presentato in concorso al Festival di Cannes 2007:Alexandra.
Si tratta di un’opera dalla struttura aperta, una struttura che non conduce i personaggi verso alcuna significativa risoluzione e che, dunque, propone in modo chiaro solo un’analisi esistenziale sulla condizione innaturale del soldato in guerra e sulla sofferenza (altrettanto innaturale) delle popolazioni civili. L’escamotage narrativo principale, cioè quello di collocare un personaggio del tutto estraneo a un contesto militare (Alexandra, appunto) all’interno di un accampamento dell’esercito russo in Cecenia, determina una sensazione di straniamento nello spettatore, il quale grazie a tale trovata viene trasportato idealmente in un territorio apparentemente realistico ma in verità completamente metaforico. Se, infatti, appare inimmaginabile che una nonna riesca a ottenere il permesso di visitare il nipote ufficiale al fronte, allo stesso tempo l’avventura che il fruitore vede scorrere davanti ai suoi occhi per novanta minuti sembra del tutto naturale. Questa incongruenza determina un effetto di stampo surrealista che però è controllato espressivamente attraverso un’impostazione formale/narrativa dilatata, astratta, mentale. Ciò che si vede, in sostanza allude a un tema “altro” che viene semplicemente evocato
Lo sguardo dell’anziana donna che si ritrova all’interno di una base militare diviene così lo sguardo di tutto noi. Veniamo posti, in tal modo, al centro del non senso, dell’assurdo; all’interno del paradossale sistema militare che estirpa giovani ragazzi dal loro mondo per ricollocarli in una condiziona bellica oscura ed enigmatica.
Sokurov dipinge questo affresco “fuori schema” alla sua maniera, grazie a inquadrature dal sapore pittorico, a lenti movimenti di macchina, a sequenze distese e sostanzialmente algide. Ciò che voleva l’autore russo, era evidentemente negare ogni forma di retorica estetizzante sulla guerra e procedere spedito al cuore del problema attraverso un linguaggio aritmico. La violenza, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, il sangue, il delirio di onnipotenza sono fattori che si avvertono, che si percepiscono ma che fortunatamente non si vedono mai. Sokurov è cineasta troppo intelligente e raffinato per cadere nel luogo comune della rappresentazione della guerra. Il suo film rimane così una sorta di visione poetica che amplifica cinematograficamente le insensate componenti che spingono gruppi di uomini ad agire verso gruppi di altri uomini.
Il viaggio di ritorno del personaggio centrale non esprime dunque alcuna soluzione contenutistica, né alcuna morale definitiva. Anzi, ciò che rimane negli occhi dello spettatore è solamente l’indecifrabilità dell’agire umano.
*Per concessione della testata giornalistica Cultframe – Arti Visive e Comunicazione – www.cultframe.com
di Maurizio G. De Bonis