Agnus dei

Anne Fontaine lavora principalmente con donne, sa raccontare storie difficili che le riguardano con naturalezza e bravura. Attrice di buon livello e sceneggiatrice, come regista ha firmato film interessanti quali Gemma Bovery (2014), Two Mothers (2013), Coco avant Chanel – L’amore prima del mito (Coco avant Chanel, 2009), sempre trattati con impegno sociale.
Ebbene, pur non volendo mettere in discussione la sua sincerità, per quel che riguarda il lavoro di narratrice non sempre riesce a essere convincente, proponendo belle storie a cui aggiunge passaggi tendenti al melodramma che tolgono grande parte dell’interesse rispetto a ciò che ha realizzato. Ama troppo i suoi personaggi e cerca di dar loro caratteristiche forti che trovino facilmente punti di contatto col pubblico. Forse, la sua esperienza come attrice la porta verso questa scelta dettata anche dal voler dare spazio espressivo alle sue colleghe; dice, e probabilmente è vero, di tenere molto in considerazione le riletture fatte dalle interpreti che, per tale ragione, divengono parte importante della strutturazione dello script. Così facendo, però,  a volte finisce per non delineare una linea drammatica che copra ogni parte della storia, cadendo nel facile gioco dell’emozione creata attraverso l’elaborazione di “situazioni al limite”.

La vicenda di Agnus dei è realmente accaduta  e vuole essere spunto per un film che intende denunciare stupri e violenze che le donne tuttora subiscono all’interno del dramma delle guerre (non necessariamente soltanto della Seconda Mondiale, epoca in cui la vicenda è ambientata). Per questo, la storia è stata molto romanzata, con l’aggiunta di personaggi non sempre efficaci che portano a sviluppi convenzionali e non sempre interessanti.

Madeleine Pauliac, la giovane dottoressa protagonista, non è proposta in maniera molto credibile. La base del lavoro fatto dagli autori è legato a scarni appunti: un diario, scritto da questa coraggiosa ragazza morta nel 1946 durante una missione. È stato per volontà di Philippe Maynial, nipote della giovane, che si è creata la condizione per trasformarlo in un lungometraggio per non dimenticare uno dei tanti piccoli eroi senza i quali molte cose positive non avrebbero potuto accadere.

Madeleine aveva 27 anni quando era stata inviata in Polonia. Medico in un ospedale di Parigi, si era unita alla resistenza, aiutando i paracadutisti alleati. Partecipò alla liberazione della città, alle campagne militari di Vosges ed Alsace fino a quando, all’inizio del 1945, partì per Mosca in qualità di ufficiale medico delle Forze Interne Francesi: il suo compito era di seguire il rimpatrio dei connazionali. Trasferita nella distrutta Polonia, fu nominata Primario dell’Ospedale francese di  Varsavia,  che era praticamente distrutto. Partecipò a oltre 200 missioni con l’’Unità dello Squadrone Blu delle autiste di ambulanza della Croce Rossa”, che avevano lo scopo di cercare, curare e rimpatriare i soldati francesi rimasti in Polonia.

Tutto ciò traspare poco nel film, e così la figura centrale si manifesta fin troppo debole (tra l’altro è resa in maniera non completamente valida dalla giovane Lou de Laâge).
Alla regista interessava più raccontare una ragazza che provava sentimenti, che si commuoveva, che aveva un rapporto speciale con alcune delle Suore. Lei, in ogni caso, era comunista, temprata dalla vita, dedita al suo lavoro per cui rinunciava a tutto, compreso a se stessa. In quest’opera fin troppo velocemente si trasforma in ragazza sensibile – lo divenne, questo è certo – capace di avere un rapporto di amicizia e confidenza con le religiose. Lo scontro culturale tra donna laica e figure femminili che hanno rinunciato a loro stesse per un amore assoluto è solo accennato, forse nemmeno comprensibile.

Le principali location sono all’interno di un convento polacco di cui sono rimasti solo i corridoi e parte della zona di preghiera. Le celle sono state ricostruite grazie a fotografie e ad altri documenti e l’illuminazione, ridotta quasi sempre al fievole chiarore di candele, rappresenta la base visiva ed emotiva della storia.

Ma la forza maggiore la forniscono le attrici polacche, con una preparazione anche teatrale che permette di fornire grande intensità ai loro personaggi, quasi tutti creati in fase di sceneggiatura.
La madre Badessa, che non accetta la realtà dei fatti e non può pensare a suore che possano divenire madri, è figura che aiuta ad aumentare la situazione di drammaticità già vissute da donne violate nella loro intimità. È interpretata con bravura dalla 45enne  Agata Kulesza, attrice con buone esperienze televisive ma anche tra le interpreti di Ida (2013) di Pawel Pawlikowski. L’amica della dottoressa, Suor Maria, è un’ intensa Agata Buzek già diretta da Jerzy Skolimowski, Krzysztof Zanussi, Lukasz Ronduda e Maciej Sobieszczanski, sempre in film presentati in Festival internazionali.
Si tratta, quest’ultima della figura più interessante: credente in maniera assoluta ma capace di prendere posizioni critiche nei confronti della Chiesa per aiutare le consorelle; dolce e determinata, ottimista e realista, permette che tutto non sfoci in ulteriore dramma.

TRAMA

 

Polonia, 1945. Mathilde, giovane medico francese della Croce Rossa già vicina alla Resistenza, è in missione per assistere e riportare a casa i suoi compatrioti. Una  suora  arriva in ospedale per chiedere aiuto, lei inizialmente rifiuta ma poi accetta di andare in un convento, dove incontra alcune sue consorelle incinta, stuprate dai soldati russi, che vengono  tenute  nascoste.


di Furio Fossati
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