After Work

La recensione di After Work, di Erik Gandini, a cura di Arianna Vietina.

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Il tema del lavoro ha un ruolo centrale, nella vita pratica dei singoli individui così come nelle riflessioni, nella retorica e nella comunicazione. Negli anni recenti il dibattito intorno al lavoro è sempre più connotato da un senso di impellenza, dato dal ritmo frenetico con cui gli individui contribuiscono a un’economia lineare, dal ruolo sempre più pervasivo della professione nell’identità, dalla paura costante della sostituzione da parte delle macchine.

Erik Gandini con il suo documentario After Work cerca di rappresentare questo enorme bacino di tensioni e di aspettative, muovendosi in maniera disorganica tra numerosi luoghi di lavoro in diversi paesi del mondo attraverso le interviste a personaggi differenti come imprenditori, ereditieri, filosofi e sociologi, gente comune che manifesta la sua ansia nei confronti del lavoro.

Ora, non basterebbero trattati di migliaia di pagine neanche per mettere a fuoco i nodi centrali di questo argomento (sfruttamento, capitalismo, identità, conflitto generazionale e molti altri), quindi risulta quantomeno ambizioso, se non ingenuo, il tentativo di Gandini di condensare una riflessione, che si pone come omnicomprensiva, in appena un ora e un quarto. Il film utilizza un tono pacato, inquadrature fisse, pochi inseguimenti, numerosissime riprese con droni. Un tono che ci parla del controllo che il regista vorrebbe operare sulla vastità di questo tema, ma che palesemente gli sfugge.

Credo sia per questo che le storie vengono appena accennate, la loro dimensione appiattita, tante situazioni non vengono chiarite e tante domande restano sospese. Si sente la mancanza di un punto di vista. Forse perché palesare una domanda di indagine avrebbe rivelato lo smarrimento con cui tutti noi ci confrontiamo con un mondo del lavoro sempre più complicato, terreno di scontri e di spaesamento. Un punto di vista che forse avrebbe portato a un film più vibrante, forse incomprensibile e negativo, ma senza dubbio più umano.


di Arianna Vietina
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