Adagio
La recensione di Adagio, di Stefano Sollima, a cura di Guido Reverdito.
Dopo la fortunata avventura americana (con i successi di Soldado e Senza rimorso), con l’attesissimo Adagio Stefano Sollima torna a girare a Roma. Nella sua Roma. Per chiudere una sorta di trilogia ideale iniziata con A.C.A.B. – All Cops are Bastards e poi proseguita con Suburra dopo aver posto le basi di un’epica violenta del crimine capitolino con la serie TV di Romanzo criminale.
In concorso all’ultima kermesse veneziana, questo piccolo miracolo di equilibrata commistione tra cinema gangsteristico, neo-noir violento e saggio di introspezione psicologica, racconta di una generazione di malavitosi al tramonto ormai capaci solo di vivere di nostalgia di un passato irrecuperabile, ma chiamati all’improvviso a cercare una redenzione impossibile nel tentativo di proteggere un ragazzino finito in un ingranaggio troppo grande per la sua fragilità di sedicenne.
Sullo sfondo di una Roma tentacolare e apocalittica devastata da incendi e blackout come in una megalopoli distopica in stile Blade Runner, tre pezzi grossi del crimine romano di una volta cercano di dare un senso alle proprie vite al tramonto, consci di essere soltanto dei fantasmi cui non resta altro che procrastinare il più possibile il proprio passo d’addio, mentre le nuove leve del crimine capitolino li rimpiazzano imponendo la propria rinnovata sintassi fatta di violenza e ferocia cieca coniugate con la corruzione delle forze dell’ordine.
I ritmi di questo passaggio di testimone li declina per antifrasi già il titolo. Che Sollima (autore della sceneggiatura insieme a Stefano Bises) ha scelto non solo per non vederlo storpiato quando il film circolerà nelle sale all’estero, ma soprattutto per descrivere la cadenza quasi bradipica con cui i suoi antieroi cenciosi si trascinano lenti e impacciati per quasi due ore fino al finale adrenalinico in una stazione Tiburtina che ha poco da invidiare alla Central Station newyorkese di De Palma.
Tre ex-Titani decaduti in demoni al crepuscolo che hanno i volti di quello che è forse il meglio del panorama attorale maschile di casa nostra: dal Cammello malato terminale di un Favino – qui alla terza collaborazione con Sollima – irriconoscibile per la calotta cranica che gli regala una calvizie fittizia ma molto credibile, al Polniuman cieco (nome omen) di Valerio Mastandrea, per finire col monumentale Daytona di Toni Servillo alle prese con la doppia sfida di un personaggio romano de Roma affetto da pre-demenza senile.
Malattia e disfunzione che non sono solo il tratto distintivo di una generazione criminale travolta dall’anagrafe e dal nuovo che avanza nella sintassi del gangsterismo metropolitano, ma anche metafora dello sfascio sociale che assedia quanto resta del nostro universo urbano e della rovina di una città tentacolare in cui i confini tra il Bene e il Male non esistono più e la sola speranza risiede in quel fuoco che si intravede ardere in lontananza e che si spera possa fare piazza pulita di tutto e tutti.
Adagio riporta però al centro della sua lente anche la conferma di un tema da sempre caro al cinema di Sollima. E cioè il rapporto tra padri e figli qui sviscerato in tutte le sue declinazioni possibili (dal padre assente di Servillo a quello presente del poliziotto corrotto di Adriano Giannini, per finire con quello soffocante di Favino che pretendeva di forgiare il figlio come se stesso finendo però col perderlo insieme alla moglie). Ma anche una paternità criminale che vede contrapposte due generazioni di delinquenti incapaci di comunicare perché sintonizzati su lunghezze d’onda troppo diverse. Se il cinema italiano sta dando segni di energica vitalità (basti pensare al caso del film d’esordio di Paola Cortellesi avviato a diventare il campione d’incassi di tutta una stagione), lo si deve anche a registi come Stefano Sollima, che con Adagio dimostra di essere ormai un autore con la A maiuscola, capace di reinventare le coordinate di un genere – quello del gangster movie metropolitano – rivendicandone il diritto a diventare lo strumento più credibile per dipingere il presente e immaginare il futuro di un intero paese.
di Stefano Sollima