A tempo pieno
A tempo pieno di Laurent Cantet è un film bello e dolente che sgomenta e che non lascia spazio ad illusioni di sorta: non è possibile, per nessuno, conciliare libertà e affetti.
Vincent, consulente aziendale, è improvvisamente licenziato e, anziché uccidere anziane signore, come Monsieur Verdoux, decide, più pacatamente, di inventarsi un nuovo impiego a Ginevra.
Comincia, così, novello Mattia Pascal, una ipotetica vita nuova, per ritornare, infine, come il personaggio pirandelliano, al punto di partenza. La sequenza finale in cui egli, trattenendo a stento le lacrime, si piega alle aspettative di suo padre, della moglie, della società, e rinuncia ai suoi bisogni più profondi, sancisce tragicamente e definitivamente la sua sconfitta.
Vincent è anche lui, come Iulian di Porcile di Pasolini, “un figlio né obbediente né disobbediente”: nonostante la veneranda età, continua, infatti, a dipendere dal giudizio altrui e non è capace di una vera ribellione, ma solo di un’effimera rivolta.
Come un bambino che, per un po’, batte i piedi contro il mondo degli adulti ma che non può, necessariamente, avere la forza per contrastarlo davvero.
Il protagonista del film di Cantet si aggiunge, dunque, di diritto alla numerosa schiera di figli incompiuti e schiacciati dai padri che popolano la letteratura e il cinema: si pensi, in tempi recenti, alla figura di Zeno Cosimi in Le parole di mio padre di Francesca Comencini.
La vicenda di Vincent diventa, allora, simbolicamente quella di ogni figlio che rimane vittima del ricatto più odioso: quello per cui si è amati non per ciò che si è, ma per ciò che si fa.
Tutti pongono, in continuazione, richieste allo sfortunato protagonista e non sono disposti a concedere nulla in cambio, se non dopo aver ricevuto da lui risposte concrete e garanzie. – L’inferno sono gli altri – verrebbe da dire con Sartre, per poi, come il Vitangelo Moscarda pirandelliano di “Uno, nessuno e centomila”, esiliarsi per sempre dal consorzio umano. Soli, ma liberi!
Mariella Cruciani
Riflessioni critiche su A tempo pieno
di Maurizio Fantoni Minnella
Dalla Francia un film (opera seconda di Laurent Cantet) che indaga sugli effetti devastanti, in una prospettiva individuale rispetto al film precedente, della società del capitalismo globale.
Un uomo viene licenziato da un incarico di responsabilità in un’importante azienda e per nascondere il fatto alla famiglia sceglie di inventarsi un nuovo lavoro di funzionario alle Nazioni Unite. Egli inoltre progetta e realizza truffe ai danni dei suoi vecchi amici. L’incontro casuale con un trafficante pregiudicato non modificherà la sua condizione disperata. Solo nel finale gli verrà offerto un nuovo lavoro, ma la sua vita avrà ormai un altro destino.
La prospettiva analitica scelta dal regista sembra davvero privilegiare la dimensione esistenziale più che quella politica, dando al film il tono di un apologo pessimista sulle strategie della menzogna, in una società umana e al tempo stesso famigliare che non ammette errori o scarti improvvisi. Della stessa famiglia vengono riprodotti, sia pur in piccola scala, i conflitti generazionali stabilendo una sorta di simmetria riproducibile all’infinito.
L’occhio filmico oggettivo di Cantet indugia sui silenzi e sui vuoti (si veda la bellissima sequenza della neve che traduce in termini simbolici, servendosi del paesaggio naturale, il profondo disagio instauratosi nella coppia) che sulle singole psicologie, confermando la tendenza di certo cinema francese o belga contemporaneo (Chereau, Dardenne, Bonello, etc.) a fare propria la lezione (peraltro condivisa dallo scrivente in sede non solamente teorica) del realismo fenomenologico.
Se il tema della perdita del lavoro e dell’io non è nuova nel cinema europeo, diversissime sono le singole modalità dell’approccio critico. Ciò che ad esempio “salva” i personaggi di Kenneth Loach dalla disperazione e dalla solitudine è il loro organizzarsi in classe sociale dove il destino del singolo è condiviso dal resto della collettività. Grazie alla lente ideologica marxista (come nel cinema del marsigliese Guédiguian) vi è sempre nel loro cinema l’ottimismo nella disperazione che è proprio degli umili, ossia di coloro che la società dei consumi non acclamano, ma subiscono. Tuttavia entrambi i registi organizzano il materiale profilmico in una prospettiva stilistico-narrativa di tipo psicologico a schema chiuso, ossia di un realismo idealistico, ben lontano dal cosiddetto realismo critico a suo tempo teorizzato da Guido Aristarco.
di Mariella Cruciani