A proposito di Davis
Fin dai primi film con cui si erano immediatamente imposti presso il pubblico e la critica (ovvero da Blood Simple a Crocevia della morte passando per Arizona Junior), una delle caratteristiche peculiari del cinema dei fratelli Coen è sempre stata la capacità di saltabeccare con assoluta leggerezza da un genere all’altro senza però mai dare l’impressione di essere a disagio dovendosi misurare ogni volta con codici narrativi diversi in praticamente ognuno dei sedici titoli sfornati fino a oggi in più di trentacinque anni di straordinaria carriera coronati da ben trentacinque nomination, quattro Oscar e svariate palme di primo piano a Cannes.
Non stupirà quindi nessuno dei moltissimi fan il fatto che l’ultimo loro film – Inside Llewyin Davis diventato in italiano A proposito di Davis – sia una specie di bizzarro incrocio tra un musical folk e un falso biopic dedicato alla ricostruzione di una sola settimana di vita di un cantautore squattrinato che nel Greenwich Village newyorkese del 1961 cerca di sopravvivere mantenendosi con la propria musica, diventando interprete quasi paradigmatico non solo del disagio giovanile che quei primi anni ’60 stavano già mostrando come anticipazione delle ben più corpose proteste destinate a esplodere di lì a soli sette anni ma anche di una delle forme (la musica folk) con cui tale disagio si sarebbe manifestato a livello artistico.
Per scrivere questo film i fratelli Coen sono partiti da Manhattan Folk Story, insolita biografia musicale che il giornalista Elijah Wald ha dedicato alla figura di Dave Van Ronk, carismatico e dotatissimo cantautore protagonista del rinascimento folk di metà anni ’50 che ebbe nel Village il suo onfalo spaziale dal quale avrebbe di lì a poco irradiato messaggi di insofferenza al resto del mondo. Una figura quella di Van Ronk che somiglia infatti molto a quella del protagonista del film, accomunati come sono dall’incapacità quasi congenita di sapersi vendere usando delle normalissime tecniche di marketing primitivo per evitare di rimanere potenzialità inespresse incapaci di convertirsi in atti compiuti.
Come Van Ronk (amico della prima ora di Bob Dylan col quale condivise le apparizioni sul palco del Gaslight Cafè, uno dei templi della musica folk in quegli anni di ricchi fermenti artistici e di ansie di palingenesi non solo musicale), anche Lewyn Davis è un musicista di talento che scrive ed esegue pezzi impegnati e incentrati su ansie autobiografiche senza però saperli vendere e senza soprattutto sapersi imporre sulla scena musicale del momento, finendo con l’essere un emarginato di lusso ridotto a pietire una comparsata su un palcoscenico a chiunque gliela possa garantire.
Inadeguato alla vita e alle normali forme di socializzazione come molti altri loser che costellano l’universo poetico e creativo del cinema dei fratelli Coen, Llewyn Davis è così tangenziale rispetto ai percorsi canonici della gente comune da non avere un posto dove vivere né vestiti adeguati per affrontare i rigori dell’inverno di New York e Chicago (dove si avventura nelle spire di un improbabile viaggio al termine della notte nel vano inseguimento di un’audizione rivelatasi poi fallimentare). Nell’arco della settimana che gli vediamo vivere non è infatti un caso che si assista al suo andare avanti indietro dalla casa di un ex insegnante a quella della sorella passando soprattutto da quella della ex che lo copre di insulti e che comunque porta nel grembo il frutto di una relazione finita male ancora prima di essere iniziata.
Ennesimo ritratto di un fallimento esistenziale e di un percorso dispari rispetto alla normalità standard degli altri integrati nel mainstream dell’esistenza, questo nuovo campione di inadeguatezza alla vita serve ai fratelli Coen anche e soprattutto per regalare allo spettatore uno spaccato quanto mai realistico e filologicamente accurato delle atmosfere che caratterizzano la scena artistica e musicale della New York di quegli anni. Maniaci come sono sempre nella loro ricostruzione degli ambienti in cui proiettano le proprie storie, anche in questo caso i due fratelli di Minneapolis infarciscono praticamente ogni scena riferibile a quel preciso contesto di evidenti riferimenti a situazioni e a personaggi reali attivi nell’epoca che è al centro del film.
E se, come detto, il Davis che dà il nome al film è il travaso in una dimensione di pura fantasia di un’identità quanto mai reale e autentica (al punto che il titolo stesso della pellicola richiama alla mente il quarto e sfortunato disco di Van Ronk, che si chiamava appunto Inside Dave Van Ronk e che uscì nel 1964), la settimana scarsa della sua vita ricostruita ad arte per fare da scenario credibile alle scarne vicende raccontate è costellata di citazioni e riferimenti a personaggi che vissero davvero quell’intensa stagione di rinnovamento artistico e culturale.
Si tratta di una specie di catalogo referenziale che i Coen dedicano a quanti come loro hanno la passione di improvvisarsi archeologi della memoria culturale andando a ripescare negli scantinati dei ricordi tutto un insieme di nomi sepolti nell’oblio e che nessuna Wikipedia al mondo sarebbe in grado di restituire. Come spesso accade nelle prove più “culte” della loro comunque sempre sofisticata filmografia, anche qui il film fa continuo riferimento a qualcosa di extrafilmico che strizza l’occhio non tanto al cinefilo di razza quanto – nel caso presente almeno – al musicologo con devianze enciclopediche e il gusto bizzarro del dettaglio insolito.
La buona parte dei personaggi di finzione intorno al quale si avvita il vagabondare fisico e interiore del protagonista di fatto non sono altro che trasposizioni di personaggi autentici cui corrispondono nomi,cognomi e carriere musicali di maggiore o minore prestigio. A partire dal trio costituito da Jim, Jean & Troy (coi primi due interpretati rispettivamente da un misurato Justin Timberlake e da una sempre cattivissima Carey Mulligan), che altro non sono che il celebre trio folk costituito da Peter, Paul & Mary.
Lo stesso dicasi poi per il personaggio interpretato da un sempre impareggiabile John Goodman (altro habitué del cinema dei Coen reso mitico da Il grande Lebowski, uno dei titoli maggiormente cult dei due fratelli): il suo jazzista eroinomane e sciancato che ospita Llewyin nella propria macchina con autista durante il viaggio notturno da New York a Chicago è di certo Doc Pomus, celebre cantautore blues che scrisse i testi di molto del miglior rock’n’roll degli anni d’oro e che bazzicava la scena folk del Village di quegli.
La sfilata di musicisti autentici nascosti dietro nomi e personaggi di facciata non finisce certo qui. Prestate infatti attenzione all’ultima e simbolica scena del film (che poi è la riproposizione con poche variazioni di quella che dà inizio al tutto, nel classico schema circolare tanto amato dai Coen in sede di scrittura): quando Llewyin – al termine della settimana da campione dei perdenti di cui è appena stato protagonista indiscusso – esce dal Gaslight Cafè dopo essere stato malmenato da un tizio che sostiene di essere un suo “amico”, sul palco si sta esibendo un giovanotto con i capelli ricci e una strana voce nasale. Non lo si vede tanto bene, ma non ci vuole molto a indovinare di chi si tratti…
Come se il film volesse dire che in quegli anni di fermenti e stimoli assortiti non tutti gli strimpellatori con chitarra e talento nascosto nella custodia erano dei falliti inadatti alla vita come Llewyin. Qualcuno invece – al pari del personaggio che si intravede appena sul palco nella scena finale ma di cui è impossibile non riconoscere la voce – ce l’ha fatta e ha cambiato per sempre il modo di percepire la musica folk come indizio di disagio generazionale e urgenza di ricambio sociale e politico.
Ma non basta. Il culto che i Coen hanno sempre mostrato in materia di acribia filologica nella ricostruzione degli ambienti e delle atmosfere socio culturali che fanno da scenario attivo alle vicende ricostruite nei loro film si manifesta anche in questo loro ultimo lavoro come un herpes positivo più forte della volontà stessa di lasciarlo emergere. Il gestore del Gaslight Cafè che qui ha l’assurdo nome di Pappi Corsicato (sofisticato regista italiano di qualità amico personale dei Coen cui è stata richiesta l’autorizzazione di usarne scherzosamente le generalità in un gioco extrafilmico tutto compresso nell’angusto mondo del cinema d’autore) e che ha la faccia dell’attore italoamericano Max Casella (già volto noto de “I Sopranos”) corrisponde a un personaggio autentico responsabile dell’inizio della carriera canora di molte star. Compreso il ragazzino coi riccioli di cui sopra.
Premiato a Cannes col Gran Premio della Giuria ma praticamente ignorato dai selezionatori dell’Oscar che gli hanno attribuito soltanto due misere nomination, questo A proposito di Davis può forse essere interpretato anche come una metafora complessa e articolata dell’atto di resa dell’arte di fronte alla sua capacità di incidere sulla realtà che circonda quanti la producono: nel ritratto dell’eterno perdente che si illude di poter vivere della propria musica in un mondo già pronto a mercificare tutto e tutti è impossibile non vedere il riflesso di una visione di pieno pessimismo di chi, come i Coen, vorrebbero illudersi che l’arte in genere abbia un ruolo decisivo nel plasmare le coscienze ma invece si devono arrendere di fronte all’amaro verdetto della realtà.
Il loro Llewyin Davis – fratello posdatato dell’Everett di Fratello, dove sei? (dimidiato Ulisse di cui si cita il percorso odissiaco alla ricerca di una sua Itaca della mente) – ha il volto asimmetrico ma misterioso di Oscar Isaac, attore di origini guatemalteche cresciuto a Cuba che qui ha finalmente avuto accesso a un ruolo di pieno protagonismo dopo essere stato Giuseppe in Nativity, un allievo della filosofa eretica Ipazia in Agorà, ma anche un ombroso Principe Giovanni nel Robin Hood di Ridley Scott nonché il vicino di casa di Ryan Gsoling in Drive e un bel tenebroso russo nel fallimentare W.E. – Edward e Wallis di Madonna.
I fratelli Coen cercavano un attore in grado di cantare tutti i pezzi che il loro personaggio esegue quasi per intero durante il film (compresa la struggente ballata con cui si apre il film): decisi a non voler accettare che le molte canzoni folk attribuite al fasullo eroe folk Llewyn Davis venissero eseguite in playback da qualche artista da omaggiare nei titoli di coda ma soprattutto dovendolo vedere in azione accanto a un professionista dell’ugola quale Justin Timberlake, hanno dovuto faticare per trovare un attore che sapesse anche cantare con decenza oltre che recitare una parte difficile da disadattato cronico e senza remissioni.
E se l’hanno trovato in questo attore dallo sguardo liquido e misterioso come un egizio scappato dai geroglifici di una tomba faraonica, anche in questo caso hanno vinto l’ennesima loro scommessa artistica. Se Isaac è perfetto nel disegnare la fisionomia dell’ennesimo antieroe dispari incapace di adattare la propria inadeguatezza ai ritmi della vita standard, è davvero sorprendente nella capacità che mostra di vivere con autentico trasporto gli spartiti ispirati che esegue in diversi momenti del film.
Lento e compassato nei punti in cui il disegno della sofferenza interiore del personaggio diventa il motore immobile intorno al quale ruota tutto l’impianto narrativo del film ma intenso e convincente là dove viene rievocato l’universo musicale e culturale della New York della rinascita folk dei primi anni ‘60, A proposito di Davis può rischiare di deludere chi dei fratelli Coen ha amato titoli quali Fargo, Prima ti sposo poi ti rovino o Non è un paese per vecchi, mentre non potrà entusiasmare chi ha invece eletto a propri film di culto altri grandi ritratti di falliti senza domani quali quelli ormai quasi immortali regalati dai due fratelli terribili in Barton Fink, Il grande Lebowski, Fratello, dove sei? e soprattutto i due ideali compagni di strada di Llewyin Davis che sono i protagonisti de L’uomo che non c’era e di A serious Man.
Trama
Nella New York del 1961 (al centro di tutto c’è il Greenwich Village, all’epoca pieno di stimoli e di fermenti artistici) il cantautore Llewyn Davis cerca invano di sopravvivere mantenendosi con la musica folk che compone ed esegue.
di Redazione