Trash

Rafael, Gardo e Gabriel sono tre «meninos de rua» che sopravvivono smistando la spazzatura in un’immensa discarica accanto alla favela di Rio de Janiero dove sopravvivono anche grazie all’aiuto di caritatevoli presenze occidentali (nel loro caso un prete occidentale inevitabilmente scomodo e la solita attivista americana che ha scelto di redimere nei bassifondi sudamericani le colpe congenite dell’universo di benessere dal quale proviene).

Un giorno i tre ragazzini trovano per caso un portafogli contenente denaro in contanti, delle foto con alcuni numeri scritti a mano sul retro, una chiave e un calendario con l’immagine di San Francesco. Quando un poliziotto corrotto fa loro capire che l’oggetto è per qualche ragione molto importante ed è legato a storie che è bene non si sappiano troppo in giro (e lo spettatore capirà più avanti le ragioni di questa lecita preoccupazione), i tre sciuscià in salsa carioca decidono di restituire l’oggetto al legittimo proprietario. Senza però poter prevedere di andarsi a infilare in qualcosa di molto più grosso del previsto che li porterà a diventare protagonisti di una rocambolesca odissea tra inseguimenti, sparatorie, violenze assortite nonché pestaggi e depistaggi di ogni tipo fino alla liberatoria soluzione finale.

Scritto sorprendentemente dallo sceneggiatore di Quattro matrimoni e un funerale e Love actually, e diretto dall’inglese Stephen Daldry, specialista di grandi successi al botteghino (da Billy Elliot a The Reader — A voce alta passando per il sofisticato The Hours) pensati però sempre per coniugare con astuzia elementi di impegno sociale a esigenze di puro intrattenimento spettacolare, questo coraggioso e spavaldo mix di generi è la trasposizione in immagini del fortunato romanzo omonimo per l’adolescenza pubblicato nel 2010 da Andy Mulligan e molto popolare nel mondo anglosassone proprio per la miscela ruffiana di componenti narrative che lo caratterizzano. A conferma, prima di ogni altra cosa, di come Daldry alimenti il meglio del proprio cinema con sane incursioni nella letteratura di razza (come già aveva fatto sia per The Hours che per The Reader — A voce alta).

Bizzarro uomo di cinema che ha alle spalle inconsuete esperienze di vita che pochi colleghi possono vantare (particolarmente rilevante per il film è forse quella che a vent’anni lo vide girare in lungo e in largo il nostro paese facendo il clown da strada), anche in questo suo sesto film Daldry non smentisce quelle che sono le caratteristiche tipiche del suo modo di raccontare i brandelli di realtà che sceglie di mettere al centro dei film diretti fino a oggi.

E cioè una certa tendenza vagamente accademica che lo porta a coniugare le forza d’urto del cinema di sincera denuncia con gli espedienti più tipici dei prodotti commerciali. Se cioè da una parte potrebbe sembrare una sorta di Ken Loach meno arrabbiato e descamisado, dall’altra l’urgenza di piacere comunque anche a quelle ampie porzioni di pubblico che per principio non amano andare al cinema per soffrire lo porta sempre a sfornare prodotti abilissimi nell’incartare in confezioni di lusso il pus sociale che vorrebbe vedere abraso denunciandone la presenza a diversi livelli socio-geografici.

Un meccanismo vincente (non a caso tre dei suoi film sono stati scelti dalla giuria degli Oscar pur non riuscendo poi a portarsi a casa alcuna delle statuette per le quali erano stati nominati) che Daldry applica puntualmente anche in Trash: premiato a Roma dal pubblico come miglior film, questo suo ultimo lungometraggio denuncia con sincera indignazione le insostenibili condizioni in cui moltissimi adolescenti brasiliani si vedono ogni giorno negare quelle che nelle società industriali dell’occidente benestante sarebbero le più normali prospettive di un futuro possibile.

Ma per farlo non sceglie la via di un’illustrazione spoglia (nello stile, giusto per fare un esempio, che avrebbero adottato i fratelli Dardenne per raccontare la medesima vicenda) che arrivi allo spettatore come un pugno alla bocca dello stomaco mettendolo di fronte al problema senza alcuna intenzione paternalistica e limitandosi invece a esporre l’esistenza della piaga. Il suo approccio è quello di chi vuole spettacolarizzare a tutti i costi l’atto della denuncia, sfruttando l’orrore sociale in atto per ricattare lo spettatore chiedendogli di vergognarsi dello stato di una parte di mondo ma senza mai smettere di intrattenerlo sul piano dello spettacolo allo stato puro.

Ed è per questo che Trash è un mistura di generi pensata in maniera molto scaltra per attirare diversi tipi di pubblico senza respingerne nessuno: da una parte c’è lo stilema tipico dell’action movie hollywoodiano con inseguimenti, sparatorie, pestaggi e tutto l’armamentario scenico (montato a ritmi vertiginosi e col continuo ricorso a elementi della decostruzione cronologica del racconto) che può servire alla bisogna per impedire allo spettatore di annoiarsi vedendo soltanto una lunga sequenza di orrori proiettati su uno sfondo di irredimibili macerie sociali.

Ma dall’altra Daldry non perde l’occasione di puntellare la struttura portante del suo racconto con le componenti tipiche del thriller e del cinema d’avventura per giovani adulti (fascia di pubblico coccolatissima negli ultimi anni proprio perché quantitativamente importante e ondivaga nelle sue scelte) sulle quali vigila sempre attenta la vocazione alla denuncia del marcio sociale che alberga in Brasile e in tutte le bidonville del pianeta nelle quali si nega ogni diritto a un’adolescenza normale.

E non è un caso che la scoperta operazione fusion che sta dietro a Trash sia ulteriormente sorretta da altre importanti scelte extra cinematografiche: a fare da adeguato contraltare all’ambientazione favelistica con tutte le sue inevitabili implicazioni di degrado denunciato per scatenare l’empatia del pubblico versi i tre eroici quattordicenni protagonisti del film ma anche per conferire al tutto una sorta di certificato di autenticità etnica c’è la presenza di una troupe interamente brasiliana con il regista carioca doc Fernando Meirelles nei panni del produttore esecutivo, il diretto della fotografia Adriano Goldman, compagno di viaggio abituale dell’autore di City of God, nonché il compositore Antonio Pinto in quelli dell’autore della struggente colonna sonora. Per non dimenticare il lungo casting affrontato in loco da Daldry per scegliere tra veri meninos de rua delle favelas miserande di Rio i tre eccezionali attori non professionisti cui affidare i ruoli principali del film.

Ciò non ostante e con tutto che Trash avrà di certo la capacità di soddisfare tipi diversissimi di spettatori deludendo solo lo zoccolo duro e puro di quanti non amano questo tipo di scaltrezza produttiva mascherata da cinema d’impegno autentico, è difficile guardare il film di Daldry senza pensare a quelle forme di neocolonialismo cinematografico che sfruttano le miserie del pianeta per cucir loro addosso prodotti di alto profilo spettacolare che si distinguono dai molti cloni soltanto perché risultanto ambientati in contesti socioeconomici di cui hanno la pretesa di denunciare l’esistenza.

E non è certo un caso che vedendo Trash il film cui viene subito in mente di pensare sia The Millionaire, ovvero un altro tipico esempio di sfruttamento scaltro da parte dell’industria cinematografica statunitense di miserie di altre latitudini (in quel caso erano gli slums ugualmente violenti dell’India più depressa e la voglia di riscatto di un suo figlio particolarmente dotato) per solleticare la cattiva coscienza del pubblico tenendolo però incollato alla poltrona con gli strumenti tipici del cinema di intrattenimento.

Trama

Dopo aver trovato un misterioso portafogli pieno di denaro e di strani oggetti e aver compreso l’importanza della cosa, due ragazzini che sopravvivono smistando spazzatura ai bordi di una favela brasiliana cercano di risalire al proprietario del portafoglio. Ma non possono immaginare in che razza di ginepraio si andranno a infilare braccati da poliziotti corrotti, brutti ceffi assortiti e vanamente aiutati da due operatori umanitari americani attivi nella baraccopoli.


di Redazione
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