40. Torino Film Festival – Dei conflitti e delle idee

Francesco Grieco commenta i film presentati al Torino Film Festival 2022, diretto da da Steve Della Casa, nella sezione fuori concorso Dei conflitti e delle idee.

Ok boomer

Fuori concorso, all’ultimo Torino Film Festival, la sezione “Dei conflitti e delle idee” ha raggruppato cinque lunghi e un corto (Comunisti di Davide Crudetti, dove nell’omaggio parodico al giro in Vespa di Nanni Moretti in Caro diario il motociclo è sostituito da un più contemporaneo monopattino), accomunati dalla stessa tensione politica, tesi come sono tra il racconto di vicende storiche importanti per il nostro Paese e il tentativo di coglierne le conseguenze nel tempo presente. Sono film che s’interrogano in particolare sul significato di esperienze di militanza tradizionale o extraparlamentare, che in alcuni casi hanno preso la strada del terrorismo.

L’irriducibile di Morgan Menegazzo e Mariachiara Pernisa, per esempio, ricostruisce la vicenda del membro di Ordine Nuovo Vincenzo Vinciguerra, attraverso immagini e suoni di repertorio, ma in particolar modo raccogliendo le dichiarazioni dello stesso terrorista, tuttora in carcere per aver fatto saltare in aria tre carabinieri nell’attentato di Peteano del 31 maggio 1972, commesso per far fuori i “soldati” nemici e denunciare l’intesa tra l’Arma e l’estrema destra neofascista. Il passato e il presente dell’uomo dialogano nel montaggio e il film, infatti, principia e finisce con due domande, fatte oggi, a cui dà risposta il Vinciguerra di ieri, in vecchi filmati: «che senso vuol dare al suo futuro?» e «c’è qualcosa in cui crede oggi di un po’ più umano?». Vinciguerra rispondeva che il senso del suo futuro era continuare sulla stessa strada, con la stessa coerenza con cui aveva intrapreso una guerra solitaria contro lo Stato, una guerra che escludeva l’umano dal suo orizzonte e poneva in secondo piano gli affetti. Alla seconda domanda, nel film di Menegazzo e Pernisa, Vinciguerra ha la possibilità di replicare anche oggi, sempre ribadendo di essere stato e di essere “inumano” soprattutto verso se stesso, lasciando che siano altri ex terroristi come Renato Curcio a provare pietà per se stessi. Si comprende allora il titolo del film, se si pensa che Vinciguerra ha scelto di costituirsi spontaneamente, accettando l’ergastolo, denunciando il depistaggio degli stessi carabinieri nei confronti dell’attentato di Peteano, depistaggio finalizzato alla prosecuzione della strategia della tensione. Ma in cosa L’irriducibile si distingue da altri ritratti di terroristi, come Corpo dei giorni, visto proprio allo stesso festival quest’anno? Differenze stilistiche a parte, non sarà il non pentirsi a fare di Vincenzo Vinciguerra e Mario Tuti persone simili. Questa può essere una caratteristica in comune, ma c’è nelle parole e nelle azioni di Vinciguerra una sorta di etica, quasi un codice d’onore che nelle gesta e nelle esternazioni di Tuti, sintetizzate nel film del collettivo Santabelva, non riscontriamo. Vinciguerra prende le distanze da tutti coloro che si sono dedicati alla lotta armata per il gusto del sangue. «Si può uccidere anche provando pietà», dichiara. Commenta la decisione di non contattare i parenti delle vittime perché per lui scusarsi con i famigliari dei carabinieri uccisi sarebbe equivalente a offenderli, dato che hanno diritto a chiedere vendetta. Addirittura Vinciguerra sostiene di aver rotto l’amicizia con Stefano Delle Chiaie (il leader di Avanguardia Nazionale che lo tradì), perché lo riteneva responsabile della morte della moglie dello stesso Delle Chiaie, Leda Pagliuca, in un incidente automobilistico causato dall’alta velocità a cui l’amico amava viaggiare. Ci troviamo di fronte, dunque, a un personaggio sui generis, dall’idealismo intransigente, dalla cocciutaggine quasi gandhiana nella difesa delle proprie idee. Un “fascista di sinistra” – nella definizione di Aldo Giannuli, che pure compare tra gli intervistati – che rivendica tanto la validità del fascismo storico quanto la propria distanza da quell’estrema destra colpevole di aver architettato la strategia della tensione. Come chiarisce la giornalista Stefania Limiti, per Vinciguerra il nemico è lo Stato democratico, non sono i comunisti. Con l’aiuto delle musiche di Enrico Gabrielli, Menegazzo e Pernisa confezionano una ricostruzione efficace delle atmosfere italiane anni Settanta, tornando a filmare negli stessi luoghi in cui si sono consumate le stragi che hanno insanguinato il nostro Paese negli “anni di piombo”.

Più o meno in quegli anni, dal 1975 al 1983 a Napoli sei giunte comunali guidate da un sindaco comunista, Maurizio Valenzi, che ci si aspettava restasse al potere solo sei mesi, cambiano il volto della città. Come afferma la giornalista Eleonora Puntillo, governare otto anni senza una vera maggioranza si può spiegare solo attraverso la patafisica. È un’esperienza che Alessandro Scippa, il figlio dell’economista Antonio (morto a settembre di quest’anno e a cui il film è dedicato – all’epoca era assessore al traffico), ripercorre nel suo documentario La giunta. E non esita a filmarsi mentre dialoga con il padre e la madre, Floriana Mazzucca, programmista RAI. Non sono gli unici testimoni che il regista consulta: ci sono i figli di Valenzi, Lucia e Marco, quello di un altro assessore fondamentale, grazie alla capacità di mediazione, per gli equilibri politici della giunta, Andrea Geremicca, all’edilizia. E altri protagonisti di quel percorso politico, come gli assessori Emma Maida, a cui andò l’incarico ai servizi sociali (che in precedenza si chiamavano “assistenza”), Benito Visca, al bilancio, Eugenio Donise, al decentramento, Antonio Sodano, Bernardo Impegno. Tunisino di origine, Valenzi è l’uomo di personalità di cui Napoli ha bisogno in quel periodo. Appassionato di cinema, riapre alla cittadinanza luoghi del territorio abbandonati, che accolgono ben presto eventi culturali memorabili. Per limitarci alle stagioni teatrali, come specifica il critico Giulio Baffi, a Napoli a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta si passa dal Berliner Ensemble al Teatro Campesino, per finire con la sceneggiata Zappatore. Non è un caso che, accanto a vecchie volpi della politica come Antonio Bassolino e Nino Ferraiuolo, e parallelamente alla conversazione tra la produttrice del film Antonella Di Nocera e suo padre Aldo, che era operaio all’Italsider di Bagnoli, Alessandro Scippa scelga di interpellare esponenti della cultura come i giornalisti Marco Demarco e Franco Cortese, i fotografi Mimmo Jodice, Luciano Ferrara e Gianni Fiorito. D’altronde, una vera rinascita per una città non può prescindere dalle arti. È Fiorito a ricordare l’immagine di Valenzi che alla Festa dell’Unità, dopo il comizio di Berlinguer, al momento del concerto di musica cubana, lancia in aria il basco e inizia a ballare. Un lato spensierato del sindaco che, come raccontano i figli, apprezzava pure il gioco degli scacchi e si dilettava con la pittura, coltivando l’amicizia con Emilio Notte. La fine per la giunta Valenzi si avvicina con il terremoto in Irpinia del 23 novembre 1980, il rapimento di Ciro Cirillo il 27 aprile 1981 e la rottura di Bassolino con la DC, che allora non sostiene più la giunta. Anche i socialisti smettono di collaborare, e così termina un ottennio memorabile per Napoli. Il documentario di Scippa lo fa rivivere a chi c’era e consente a chi invece non l’ha vissuto in prima persona di approfondire la conoscenza di quello che fu molto più di un semplice episodio nella storia partenopea degli ultimi cinquant’anni.

Un’impostazione corale analoga, ma con un’eterogeneità di giudizi senz’altro maggiore, ha il film di Tony Saccucci Lotta Continua. Si va da Giampiero Mughini, che dice di aver pagato duramente l’aver rinunciato al se stesso di quando aveva vent’anni, a Erri De Luca che ha sempre una «perfetta e piena lealtà nei confronti delle ragioni di quel movimento», nonostante gli eccessi del servizio d’ordine che dirigeva. La componente femminile di Lotta Continua è ben rappresentata dalla sociologa torinese Donatella Barazzetti e dalla traduttrice Vicky Franzinetti, che rammentano le difficoltà nel relazionarsi con gli operai dell’epoca, spesso analfabeti, sessisti e alle prese con il problema dell’alienazione dal prodotto del proprio lavoro. Nel biennio ’73-’74 le idee femministe si diffusero ampiamente all’interno di Lotta Continua, finché nel novembre 1976 le donne furono le vere protagoniste del secondo congresso, quello delle dimissioni in blocco dei dirigenti, in seguito al risultato deludente di Democrazia Proletaria alle elezioni parlamentari di giugno, dopo le quali molti militanti, non soltanto di Lotta Continua, abbandonarono la politica. È ancora Barazzetti a far notare come numerosi iscritti a Lotta Continua intrapresero carriere nella controinformazione dopo la morte di Pinelli e l’omicidio di Calabresi. Molti di loro, poi, sono diventati scrittori e giornalisti affermati (Gad Lerner, Paolo Liguori, Guido Viale, lo stesso Adriano Sofri). La strage di piazza Fontana segnò la perdita dell’innocenza per il movimento. Il volo di Pinelli dalla finestra della questura di Milano fu il punto di non ritorno, non solo per Lotta Continua, ma per il Paese. Mentre nel 1973 il colpo di stato in Cile dava inizio ad una lunga dittatura, nel 1975 il militante di Lotta Continua Pietro Bruno, inviato da De Luca a una manifestazione contro l’ambasciata dello Zaire, venne ucciso da un carabiniere. Nell’autunno 1976 nacque Prima Linea, come sottolinea Mughini, proprio grazie al contributo determinante di un gruppo di fuoriusciti da Lotta Continua. Il filmato di repertorio del primo processo alle Brigate Rosse, verso la fine del film di Saccucci, permette di comprendere il rapporto di parziale ma sicura consequenzialità tra il fallimento degli strumenti democratici di lotta politica impiegati dalla sinistra extraparlamentare e la deriva violenta del terrorismo rosso.

Facciamo un salto di parecchi anni. Il movimento No TAV sembra essere stato l’unico a resistere a lungo, in questi ultimi decenni di assoluta effimerità delle lotte in Italia. Il documentario di Carlo Augusto Bachschmidt La scelta ci aiuta a capirne le motivazioni, attraverso l’intervento di alcuni militanti, in particolare di Luca Abbà, che nel 2012 rimase folgorato mentre era salito su un traliccio dell’alta tensione. Sopravvissuto fortunatamente alla caduta, Abbà continua a rimanere un punto di riferimento per i No TAV. Nelle prime scene del film c’è proprio l’intervista radiofonica che Abbà concede pochi minuti prima dell’incidente. Le tre parti in cui è suddiviso il film sono introdotte da sintetiche didascalie su fondo nero: “forza”, “coraggio”, “gioia”. La prima parte ruota intorno all’episodio di Abbà, al suo recupero fisico, ai suoi messaggi di incoraggiamento ai compagni. Ascoltiamo varie testimonianze di attivisti, spesso anziani, più di una volta a muso duro contro le forze dell’ordine. Dai loro discorsi emergono profonde riflessioni, come quelle sulla concezione ciclica della vita e la convinzione che tutti gli esseri viventi hanno lo stesso valore. Nella seconda parte assistiamo a momenti del processo contro i quattro giovani No TAV che il 14 maggio 2013 assaltarono il cantiere di Chiomonte. A Radio No TAV parla Paolo Zanotti, il padre di Mattia, uno degli imputati, all’epoca agli arresti. Percorrendo sottotraccia almeno due delle sezioni del festival, “Dei conflitti e delle idee” e il concorso dei documentari italiani, il filo conduttore della necessità della violenza omicida ribadita in alcuni casi specifici da individui che hanno dedicato parte della loro vita ad azioni di lotta armata, con ideologie diverse, si fa visibile anche nel film di Bachschmidt. Le parole dello scrittore Davide Grasso, un passato sia nel movimento No TAV, sia nell’Unità di Protezione Popolare, da un lato spiegano che combattere con le armi non ha effetti positivi sull’autostima, dall’altro relativizzano il gesto di dare la morte a qualcuno, con l’argomentazione che siamo tutti persone che uccidono persone, in qualche modo. La terza e ultima parte del film torna su Luca Abbà. Dopo la nascita del figlio Lorenzo, la relazione con Emanuela è entrata in crisi e i due si sono separati. L’anno di semilibertà che Abbà ha dovuto scontare lo ha visto fare il pendolare quotidianamente per 70 km di viaggio. In conclusione del film, si accenna alla condanna ricevuta da Nicoletta Dosio, probabilmente il risultato più discutibile degli iter processuali contro i No TAV. La “gioia” che è il titolo di questo terzo capitolo del film si palesa solo nelle immagini di un concerto, prima del lancio di lacrimogeni. Come dice un vecchio militante, «ormai la nostra scelta di vita l’abbiamo fatta».

Ben più inquieti e meno convinti delle proprie scelte politiche sono Gianfranco Pannone e Andrea Gropplero di Troppenburg, i registi di Ok boomer!, un accorato ma ironico dialogo in voce over (ma anche in compresenza) sul tema del rischio di nostalgia per chi, riguardandosi nelle immagini dell’epoca, rievoca memorie liete di una giovinezza in cui la caduta del muro pareva promettere un futuro migliore. Nella metropoli tedesca per presentare dei corti al festival del cinema e vagare per le strade come Bruno Ganz nel Cielo sopra Berlino, i due giovani si dividono su Godard e Truffaut, ma concordano su Wenders e Rossellini. Oggi entrambi, Pannone e Gropplero, tentano di comunicare con le rispettive figlie, Costanza e Adele, nei mesi difficili del lockdown. Il gap culturale e anagrafico rende complicato trovare un orizzonte comune da cui far partire la conversazione e fioccano le incomprensioni: «ci avete tolto tutto, anche la parola “boomer”», afferma Costanza, mentre il padre la accusa di vittimismo. Gropplero è maggiormente autocritico e ritiene che il 1989 sia il confine tra i boomer e i millennial: chi è nato dopo quell’anno è una vittima sacrificale. Più facile è per i due uomini confrontarsi tra loro, pur con le significative differenze (Gropplero ha ancora il culto di Lenin, mentre Pannone preferisce non sentirlo nominare, salvo poi non riuscirne a buttar via i libri), su quello che il ricordo di quest’ormai mitico viaggio a Berlino compiuto da due ventisettenni nel febbraio 1990 possa portare, in termini di nuova consapevolezza, di rinnovamento delle ideologie, o di quel che ne rimane oggi. Gropplero apre un canale YouTube di cucina, “Chef Guevara”, in cui spiega il comunismo usando il cibo, tra ricette economiche ed esternazioni spiritose («i padroni vogliono ripartire, noi vogliamo ripartire i loro profitti»). Colloquia con Maurizio Acerbo del PRC, stappano un vino del 1984 («il problema del comunismo è sempre stato quando ci mettono il tappo»). Pannone, confortato dalla fede cristiana oltre che dal pensiero socialista, reagisce allo stress della pandemia cercando la leggerezza nelle piccole cose. Esce dalla città e ritrova un rapporto con la natura. Parla con amici diversissimi, uno che gli dice «lo stile dei boomer è il pop», un mondo fatto di oggetti, e che cita il passo dei Fratelli Karamazov contenente un invito a condividere la bellezza per redimerla. L’altro compagno che a Barbarano Romano si lamenta dei ventenni pigri di oggi, che non vogliono camminare né fare l’amore, e dà la colpa alla troppa tecnologia. Sia Gropplero che Pannone si chiedono se la loro generazione ha fatto abbastanza, cosa ha lasciato ai posteri. Sembrano trovare un’assoluzione, chissà quanto duratura, il primo nelle parole di Acerbo, secondo il quale il conflitto intergenerazionale non esiste e non aver preso la patente per non inquinare è già aver contribuito alla giusta causa, il secondo nelle rassicurazioni dei ragazzi di Extinction Rebellion, che predicano l’unione di tutti gli uomini di buona volontà contro il sistema economico, contro i veri responsabili della catastrofe ambientale.


di Francesco Grieco
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