4 mesi, 3 settimane, 2 giorni

4_mesi_3_settimane_2_giorni

4_mesi_3_settimane_2_giorniL’ultimo film di Christian Mungiu, Palma d’oro a Cannes, è ambientato in Romania durante gli anni difficili del comunismo e racconta con un linguaggio asciutto e scarno la vicenda dolorosa di due giovani studentesse del Politecnico di Bucarest, Otilia e Gabita. Siamo nel 1987, l’aborto è vietato dalla legge. Per chi, come Gabita, decida di interrompere la gravidanza al quinto mese (esattamente dopo quattro mesi, tre settimane e due giorni, come recita il titolo del film) la pena va dai cinque ai dieci anni di carcere. La ragazza, sostenuta e aiutata dall’amica Otilia, che appare da subito più risoluta e forte di lei, decide comunque di esporsi ai rischi tremendi che comporta l’aborto clandestino. Primo fra tutti l’incontro con il signor Bebe (un medico?, un infermiere?), che per praticare l’intervento non si accontenta del pagamento in denaro ma esige addirittura favori sessuali da entrambe le ragazze.
In un sua intervista, il regista ha sottolineato come il suo intento sia stato, non tanto quello di fare un film sul comunismo e sul regime di Ceausescu, e neppure sul tema spinoso dell’aborto, ma quello di mettere in scena la vicenda intima e personale di due ragazze, a cui la Romania degli anni Ottanta fa da contesto. Tuttavia è un contesto che, almeno agli occhi di uno spettatore dell’Occidente dei nostri giorni, non resta solo come sfondo; e che, inevitabilmente, finisce per permeare la narrazione di un’atmosfera tesa e pesante, complice anche la fotografia che tinge tutto di una luce livida e sottilmente angosciante. Lo stile con cui il regista sceglie di raccontare gli eventi è essenziale, sobrio, quasi documentaristico (gran parte del film è girato con la macchina a mano). Le vicende vissute dalle protagoniste, nella loro difficile e a tratti anche brutale quotidianità, sembrano rivelarsi sullo schermo così come accadono, senza alcun filtro. Anche l’assenza del commento musicale contribuisce a dare l’impressione di essere in presenza di una realtà non manipolata, non alterata, assolutamente credibile e verosimile, e forse proprio per questo così inquietante.

Quando la macchina da presa è fissa inquadra sempre una porzione di spazio che si avverte come limitata e incompleta, come se non riuscisse a stringere nel campo visivo l’interezza della realtà. Al volto teso di Otilia che parla all’amica non si alternano i controcampi su Gabita, stesa sul letto della stanza d’albergo dove ha subito l’intervento. La sua voce fuori campo rivela però una realtà che esiste e si muove anche al di fuori dell’inquadratura. Allo stesso modo, durante la cena di Otilia a casa del suo fidanzato, vediamo la ragazza seduta a tavola, stretta tra gli ospiti, in silenzio, nervosa, angosciata. Attorno a lei visi che parlano e ridono, mani che tendono piatti e che brindano, ma spesso le voci provengono ancora da fuori campo e gli ospiti che si agitano e si muovono sono come tagliati a metà dalla cornice immobile dell’inquadratura. Tutto questo contribuisce a far pensare ancora ad una realtà non predisposta artificiosamente per la macchina da presa, ma da questa “ritagliata” quasi casualmente dalla vita delle protagoniste, in una sorta di fredda fenomenologia della (loro) quotidianità.
Le due ragazze si muovono in un mondo ostile e chiuso in se stesso, sull’orlo del collasso, abituate a una “normalità” dove il sospetto è ovunque e le più banali pratiche burocratiche, come la prenotazione dell’albergo dove Gabita abortirà, hanno un sapore assurdamente kafkiano. La tensione sale progressivamente durante lo svolgimento del film fino alla sequenza in cui Otilia percorre da sola le zone più desolate della città, in una notte nerissima e opprimente, alla ricerca di un posto in cui disfarsi del feto, avvolto in un asciugamano. Come in un thriller, ogni piccolo rumore sembra preannunciare l’accadimento di qualcosa di orribile. Il signor Bebe ha già avvertito le ragazze: non possono seppellirlo, perché i cani lo troverebbero.

Alle parole dei protagonisti, ai loro piccoli gesti apparentemente banali, il regista assegna il compito di rivelare ora il cinismo e l’indifferenza (nel caso del signor Bebe), ora l’ansia e la paura (nel caso delle due ragazze), come nella scena in cui Otilia fruga di nascosto nella borsa del signor Bebe, e tra gli strumenti per praticare l’intervento, i medicinali e le garze, trova anche un coltello a scatto. Senza enfasi né compiacimento, il film pone lo spettatore di fronte al crudo manifestarsi dei fatti, come quando l’idea angosciante dell’aborto si materializza col primo piano del feto, che lo spettatore è obbligato a guardare per alcuni interminabili attimi. Quello del regista è, infatti, uno sguardo attento e penetrante, che però sembra voler restare imparziale, neutro, lasciando del tutto implicito il giudizio di ordine morale sulla drammatica realtà condivisa dalle due amiche.


di Arianna Pagliara
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