Avatar
Jake Sully è un ex marine costretto ora su una sedia a rotelle. Nonostante il suo handicap, Jack rimane un combattente e, per questo, viene arruolato per una missione su Pandora, pianeta distante anni luce dal nostro, dove è possibile estrarre un raro minerale necessario per risolvere l’irreversibile crisi energetica in cui versa la Terra. Poichè su Pandora l’atmosfera è tossica è stato studiato un Programma Avatar che permette di collegare la coscienza umana ad un avatar, appunto, ovvvero un corpo biologico guidato a distanza; si tratta di un ibrido geneticamente modificato in cui il Dna umano è mescolato a quello della popolazione indigena, i Na’vi. Jake nel suo nuovo corpo entra in contatto con gli abitanti di Pandora ma la sua condizione di “infiltrato” si trasformerà ben presto in un lacerante conflitto tra il suo dovere di soldato e la sua coscienza di uomo.
Già Diderot, nella metà del Settecento, scriveva “L’uomo dotato di immaginazione passeggia nella sua testa come un curioso nel suo palazzo” ad indicare come egli trovi in se stesso immagini e pensieri che non sa disegnare e, forse, nemmeno pensare. Chissà come avrebbe reagito allora il filosofo francese se avesse avuto la possibilità di assistere allo spettacolo fantasmagorico di Avatar.
Già “disegnato” nella mente di James Cameron tanti anni or sono, il progetto di questo film si è potuto concretizzare soltanto ora, grazie alle possibilità offerte delle nuove, avanguardistiche, tecnologie che hanno permesso la messa in scena di uno spettacolo grandioso.
Avatar è infatti un’incursione nel puro fantastico e Cameron si è spinto oltre il cinema e, soprattutto, oltre il “suo” cinema,che aveva già sfornato successi planetari come Terminator e Titanic. Avventurandosi in un altrove mai visto prima, Avatar trasporta, letteralmente, lo spettatore in un universo “altro” in cui l’umano è, per prima cosa, naturale e,conseguentemente, divino. In una sorta di panteismo tecnologicamente evoluto Avatar celebra l’estrema potenzialità della settima arte, quella di riuscire a materializzare la fantasia non già in senso puramente astratto ma addirittura tangibile e, paradossalmente, vero. Paradossalmente poiché questi magnifici Na’vi, esseri dotati di eleganza fisica e purezza d’animo, sono frutto della computer grafica che, pur nella loro essenza virtuale, riescono, invece, ad essere più realistici degli attori in carne ed ossa che, in questo caso, sembrano davvero i loro “avatar”, gli alter ego mal riusciti e alieni, ovvero estranei ad una qualsivoglia forma di razionalità, sensibilità e pietà. Pandora è un universo pulsante di vita e di energia, la stessa che alberga nei cuori dei suoi abitanti, disposti a difendere fino all’ultimo respiro ciò che li circonda. Cameron coniuga così tecnologia e pacifismo, fantasmagoria ottica e ambientalismo, fondendo in un unicum spettacolare, il “messaggio” e il “meraviglioso”. Fin dagli albori del cinema le invenzioni e gli strumenti ottici erano preposti a rendere visibile quel palazzo mentale dell’immaginario e Cameron è riuscito, non solo a splancarne le porte ma, addirittura, a costruire un nuovo edificio dell’immaginazione stessa. Ma era davvero questo il traguardo del cinema? Certamente il suo linguaggio e la sua estetica subiscono costanti e inevitabili metamorfosi, tuttavia è il nucleo narrativo, la potenza della parola (sia essa scritta che espressa quando, addirittura, inespressa) che generano l’emozione. Può la fantasmagoria davvero “raccontare”? Forse non esiste risposta o meglio una che possa definirsi “giusta” ed è anche plausibile che Cameron non voglia porre alcun interrogativo ma, al contrario, rispondere, con il suo film, alla domanda su cosa, e in che modo, sia possibile realizzare con la fantasia fusa alla tecnologia. Avatar è un magnifico spettacolo, un prodotto eccellente realizzato da un regista che ha fatto sua la lanterna magica del terzo millennio. Plauso e applauso per Cameron anche se per parlare di capolavoro bisognerebbe andare ben oltre l’incanto dell’occhio.
di Eleonora Saracino