12
Nikita Mikhalkov è un autentico monumento del cinema sovietico prima, russo poi. Un monumento ambiguo e scricchiolante, però, un monumento con zone d’ombra e risvolti non chiari. Mikhalkov è sopravvissuto (artisticamente) a ogni passaggio epocale. Lavorava durante il regime comunista, continua a lavorare in era putiniana. Ventuno regie, quarantaquattro interpretazioni, diciassette sceneggiature, sette produzioni. Non c’è che dire, il curriculum del regista di Mosca è di tutto rispetto, con alcuni picchi generati dai suoi film migliori: Schiava d’amore (1975), Partitura incompiuta per pianola meccanica (1976), Cinque serate (1979), Oci Ciornie (1987).
Lo scorso anno ha presentato in concorso alla 64. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia un film che ha suscitato un discreto dibattito critico: 12.
Opera di passaggio, prima della realizzazione de Il sole ingannatore 2 (uscita prevista addirittura nel 2010), 12 è una sorta di remake del capolavoro di Sidney Lumet: La parola ai giurati (1957).
Quello del regista russo non è certo paragonabile al lungometraggio di Lumet, ma il pensiero critico non può che volare alla profondità della pellicola del cineasta americano, profondità che sinceramente non riusciamo a rintracciare in questo nuovo 12.
Mikhalkov, da ottimo costruttore di azioni drammaturgiche, è riuscito a elaborare una vicenda dai tratti intensamente claustrofobici, ossessivi e paradigmatici rispetto alla reale situazione della società russa contemporanea. Lo spunto centrale riguarda un fatto preciso, cioè se condannare o no un giovane ceceno accusato di omicidio. Trovata non proprio geniale e originale, che in verità serve all’autore moscovita per mettere in scena una sorta di psicodramma di impostazione tipicamente teatrale. I personaggi si confrontano tra di loro, evocano le loro vicende personali, svelano psicologie fragili e linee interiori del loro carattere. È evidente l’intento del regista di collocare la riflessione intellettuale interna alla storia in una dimensione contemporanea, politica e sociale. Forse anche umana. La questione dei valori, dell’angoscia esistenziale, della sofferenza individuale e collettiva sono tutti fattori che Mikhalkov utilizza in maniera visibilmente astuta e tutta incentrata su una sorta di spettacolarizzazione colta e un po’ ammiccante che intende sedurre lo spettatore, anche il più smaliziato. Così, più che tendere allo sguardo del fruitore, il regista cerca di catturare la sua mente, o meglio i sui sensi. Il tutto costruendo uno spettacolo dei sentimenti geometrico, vibrante e praticamente perfetto sotto l’aspetto comunicativo.
Resta il fatto che 12 è un film che trova la sua maggior forza nel vigore di una recitazione sfacettata ed emozionante (e di stampo teatrale) a cui contribuiscono tutti gli interpreti; Nikita Mikhalkov compreso. Se non fosse per tale aspetto, significativo (lo ribadiamo), questo lungometraggio sarebbe solo un esercizio di grande professionalità e di rara scaltrezza intellettuale.
di Maurizio G. De Bonis