Disadattare Pirandello
Giuseppe Ghigi analizza il libro "Pagine girate. Nuovo cinema Pirandello" di Anton Giulio Mancino.

Non è facile “disadattare”, o riallocare in forma critica, un testo ricco e complesso come “Pagine girate. Nuovo cinema Pirandello” ultima e corposa fatica di Anton Giulio Mancino (Kaplan, 2023, 25 euro). Corposa certo, sia per il numero di pagine, ben trecento cinquantasei da girare lentamente, sia per un linguaggio che si diverte a disambiguare i concetti e le parole mai inutilmente, ma per suggerire senso e per meglio fissare concetti. Per stare al gioco di Mancino, che non è un gioco da ragazzi, dobbiamo “girare le pagine” e adattarle alla forma critica che non è il testo, ma non può essere un tradimento del testo. Usando i concetti che già lì si trovano, il testo è una sorta di hardware, ma la critica del testo è davvero una sorta di software, un creativo “dis-adattamento”?
In realtà, non ci stiamo allontanando troppo dalle “Pagine girate”, anzi siamo dentro all’incipit poiché Mancino fissa subito saldi i suoi paletti teorici. Per prima cosa, si domanda “girando le pagine” del testo, va messo “Pirandello e il cinema” o “Cinema e Pirandello”? Ci sembra di capire, ma forse sbagliamo, che alla fine resti solo “cinema” nella sua autonomia di linguaggio che non tradisce il testo hardware perché non c’è un legame coniugale: ognuno è nella sua strada e non c’è un vero e proprio “divorzio”, ma qualcosa che si ascrive all’amore (per l’hardware) o semplice “atteggiamento narcisistico” nella “resistenza” ad “adattarsi”. Amore… già: «ci vuole infatti quell’amore eretto come muro protettivo per disadattare un testo preesistente e rivestirlo di nuovo “tessuto” mediale: insomma un amour/a-mur, come lo definisce Lacan, che implica linguisticamente già la separazione».
Scrive Mancino: «Piuttosto che vedersi scavalcati da Pirandello, gli artefici dei film pirandelliani si sono ripresi la sottile e inaspettata rivincita al proprio “turno”». È “l’autodeterminazione filmica” che oblitera termini come “tradimento”, che assurge invece a “sintomo di resistenza nient’affatto passiva”, o “adattamento”, che sembra servile e pigra azione di lettura; meglio usare “dis-adattamento” che più si adatta a “un cinema senza fissa dimora e temprato dalla remota vocazione intermediale”.
Del resto, diciamo noi, anche la stessa nostra lettura di un testo è sempre un “dis-adattamento”: ci proiettiamo molte cose e ne vediamo alcune che magari altri non vedono. Leggere è già un “tradire”, portare in scena una commedia del Nostro o farne un film, è già fare qualcosa che se ne allontana ontologicamente. Sono azioni, dice l’autore, “commutazioni” che danno luogo a “opere a carattere intermediale”, trasmigrazioni che forse sono già suggerite dalla stessa testa pirandelliana. Il cinema, “recita a soggetto”, anzi “zoppica a soggetto”, e forse lo stesso Pirandello lascia agli attori-registi la libertà di alludere, di gironzolare a piacimento come “compagni di viaggio” che costituiscono “un valore aggiunto insostituibile”.
Vabbè, torniamo a “Pagine girate” passando a “metateatro, metà testo”, dove sono già “l’asportazione” e gli strappi conclamati di uno scrittore, di suo “disadattato”, a mostrare che l’autore “gioca in casa”, sa il fatto suo e sa che ogni adattamento, questa volta forse senza “dis-”, cinematografico o teatrale è simile a quando «non si hanno occhi propri, bensì un paio di occhiali tolti in prestito altrui». Pirandello è cosciente che “nel vedersi sottrarre la sorte scenica dal regista” di una sua commedia si è già “nell’anticamera della sorte filmica”. Se nel teatro c’è il corpo fisico della parola scritta (che non ha fisico), nel cinema c’è il corpo-immagine che forse si avvicina alla lettura del testo (si immagina leggendo). Forse, il cinema è il miglior destino di un’opera scritta.
Andiamo avanti. E siamo arrivati ai “capogiri e manovelle” del cineoperatore Serafino Gubbio che, per il nostro autore, non è il soggetto del romanzo, né mero pretesto, ma è l’occasione per Pirandello di “rivoluzionare la scrittura letteraria in senso cinematografico”, di deridere quei lettori che credono che la letteratura “debba dettar legge nella ricezione audiovisiva”, di insegnare a scrivere “con cognizioni di causa una sceneggiatura”. Un romanzo che, secondo Mancino, “sarebbe predisposto per la «distruzione del naturalismo»” e avrebbe “intercettato il linguaggio cinematografico ancora ramingo”.
Saltiamo, come nel gioco dell’oca, i capitoli “Pirandello detective” e “Lo schermo dei personaggi”, e andiamo ad indossare il “Paltò di Pirandello” che può essere indossato “ad oltranza”, ceduto ad altri che magari non amano i suoi revers o i suoi bottoni di dorata scrittura e lo adattano ai propri gusti, o può cambiare “colore” dissolvendosi in musica, come per “La favola del figlio cambiato” a cui viene data dal proprietario del cappotto, data a Malipiero s’intende, la “piena libertà nell’aggiungere, togliere, adattare ciò che conta”. O come per il “Feu Mathias Pascal” di cui Herbier si vantava di aver fatto “absolutement ce que j’ai voulu”. Siamo dunque alle solite.
Non poteva mancare, ed è quasi un tormentone per Mancino, uno scavo archeologico, un vedere ciò che si potrebbe forse vedere in “piena luce” avendo buoni occhiali, un capitolo “Da Pirandello a Moro” dove, con volo pindarico, si sostiene che è difficile non accorgersi “di come il dramma di Moro rientri nella quadratura del cerchio di un Pirandello disadattato”, da Bellocchio ovviamente. E si arriva ad affermare che «più con impatto causale che casuale, è come se Pirandello avesse predisposto il caso Moro anche per Bellocchio oltre che per Sciascia». Si potrebbe dire, come nei “Pagliacci”, mentre preso dal delirio, non so più quel che dico, ma conoscendo quanto Mancino abbia lavorato su questi temi, ci crediamo, punto e basta.
E di capitolo in capitolo, il libro ci offre alla fine anche il trattamento di “La balia” di Marco Bellocchio, un valore aggiunto al molto valore di ciò che lo precede. Speriamo di non aver “dis-adattato” troppo “Pagine girate” e auguriamo una buona lettura di un saggio dalla lunga, faticosa, gestazione e capace aprire nuove letture. Dis-adattate, ovviamente.
di Giuseppe Ghigi