Da Prokof’ev a Prokof’ev, il potere vuole la sua musica (Terza parte)

Per la rubrica "Cinema è storia", CineCriticaWeb pubblica la terza parte di un saggio di Roberto Pugliese sul rapporto tra il potere politico e la musica per il cinema, dall'URSS alla Russia di oggi.

"Arca russa" di Aleksandr Sokurov

I conflitti anche creativi che hanno innervato il rapporto di Prokof’ev e Šostakóvič con il cinema, unitamente alla loro statura artistica decisamente superiore, sono in larga parte estranei alla nutrita galassia di compositori che operano in quegli stessi anni e che hanno ovviamente lasciato una traccia molto più debole.

Pure, fra di essi figurano nomi di prestigio della cultura musicale russa, quali Dimitrij Kabalevskij (1904 – 1987), cofondatore dell’Unione dei Compositori Sovietici, compositore prolificissimo in ogni campo e grande esperto del folclore musicale russo, attivo nel cinema sin da quel 1934 con il dostoevskijano Le notti di San Pietroburgo (Peterburgskaya noch, Grigorij Roshal e Vera Stroyeva), il cui protagonista è un talentuoso violinista, e poi con il florilegio di inni bellici e popolareschi di Shchors (1939, Aleksandr Dovzhenko e Yuliya Solntseva), biopic sull’omonimo leader contadino rivoluzionario ucraino, e il melodismo emotivo e fluente che domina le partiture per la trilogia (1957-1959, Grigorij Roshal e Meri Anjaparidze) tratta dalla Via del Calvario (Khozhdeniye po mukam) dello scrittore Aleksej Tolstoj.

Ancor più popolare di lui fu l’armeno Aram Khachiatur’jan (1903 – 1978), esponente di punta di quell’antimodernismo accattivante, sentimentale e immediatamente orecchiabile che il Partito contrapponeva al “deviazionismo formalista” dei compositori più innovativi. Khachiatur’jan diverrà celebre soprattutto per i suoi balletti, da cui emergono pagine come la “Danza delle spade” (da Gayaneh, 1939-1942), finita persino nella pubblicità di un detersivo, mentre l’Adagio, più nobilmente, è stato utilizzato da Stanley Kubrick nel suo 2001: odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968); per non parlare della scena d’amore tra Spartaco e Frigia in Spartaco (1956), confluita in film come Mayerling (Id., 1968, Terence Young), Mister Hula Hoop (The Hudsucker Proxy, 1994, Joel e Ethan Coen), fino al cartoon L’era glaciale 2 – Il disgelo (Ice Age: The Meltdown, 2006, Carlos Saldanha).

Khachiatur’jan fu ovviamente anche compositore cinematografico in proprio, a partire sempre dal 1934 (è solo una coincidenza che fosse l’anno anche della vituperata Lady Macbeth šostakóvičiana?), soprattutto per i film diretti nel dopoguerra da Mikhail Romm, e la sua inesauribile vena coloristica e melodica, unitamente ad una propensione per ritmi brillanti e scalpitanti, ne fecero un esponente perfetto di quell’ottimismo popolaresco e fideistico che era considerato imprescindibile per ogni buon artista sovietico.

Vale anche per Isaak Dunaevskij (1900 – 1955), celebre specialmente per l’utilizzo di canzoni e musica vocale, autore delle partiture per le commedie musicali Tutto il mondo ride (Vesyolye rebyata, 1934 – di nuovo, Grigorij Aleksandrov), in cui peraltro si avvalse delle orchestrazioni di Šostakóvič, e I cosacchi del Kuban (Kubanskie kazaki, 1950, Ivan Pyrev).

O per Vasilij Solov’ev-Sedoj (1907 – 1979), altro compositore “ufficiale” del regime, specializzato in atmosfere distensive e rasserenanti, meglio se di ambientazione sportiva, come nel Primo guanto (Pervaya perchatka, 1947, Andrej Frolov); o per Vissarion Shebalin (1902 – 1963), grande adattatore di biografie musicali dedicate ai padri della musica russa quali Glinka o Rimskij-Korsakov.

Infine – ma l’elenco potrebbe continuare – per l’allievo di Šostakóvič Boris Čajkovski (1925 – 1996) che dell’autore della Patetica era solo omonimo e non parente, ma che proprio agli aspetti più appariscenti e sbrigativamente comunicativi della sua lezione sembra riferirsi nelle proprie fortunate composizioni orchestrali e in quelle per il cinema, fra cui si ricordano il singolare, drammatico Il delitto di Via Dante (Ubiystvo na ulitse Dante, 1956, Mikhail Romm), storia di un’attrice che nella Francia occupata scopre nel figlio un collaborazionista con i fascisti, il celebrativo Nei giorni d’Ottobre (V dni Oktyabrya, 1958, Sergej Vasil’ev) e Brilla, brilla mia stella (Gori, gori moja zvezda, 1970, Asleksandr Mitta), road movie pedagogico su un attore che viaggia per le campagne durante la Guerra Civile.

Ma tra queste numerosissime e oggi dimenticate figure collaterali ve n’è una che domina su tutte le altre, anche per i ruoli istituzionali che ebbe a ricoprire: ed è quella di Tichon Nikolaevič Chrennikov (1913 – 2007), potentissimo Direttore dl Teatro dell’Armata Sovietica, deputato al Soviet e soprattutto dal 1948 – su indicazione diretta di Stalin – sino al ’91, anno del disfacimento dell’URSS, Segretario Generale dell’Unione Compositori. Chrennikov è il perfetto portabandiera di quell’ortodossia arcigna e blindata che il realismo socialista imponeva alle arti; burocrate inflessibile, creatore e affossatore di carriere ed esistenze, esercitò un’influenza immensa sulla vita musicale del paese, direttamente proporzionale alla propria mediocrità artistica, e fu autore, come molti suoi colleghi, estremamente prolifico in tutti i settori.

Chrennikov è il tipico latore di quel sinfonismo di retroguardia, apologetico e fervente, che non solo ignora le tensioni moderniste di un Prokof’ev o Šostakóvič (da lui sempre osteggiati dall’alto delle sue posizioni di potere) ma sembra addirittura retrocedere stilisticamente ad ancor prima di Rachmaninov o di Aleksandr Skrjabin (1872 – 1915), l’esponente più visionario e delirante del simbolismo musicale russo: lo testimoniano partiture ridondanti e tardoromantiche come, fra le molte altre, Un uomo va in Oriente (Poezd idyot na vostok, 1948, Jurij Rajzman), o I minatori del Donetz (Donetskiye shakhtyory, 1951, Leonid Lukov), intrise di fervore operaista.

Questa tendenza intrinsecamente, sostanzialmente “reazionaria” e conservatrice, cosparsa di esotismo e cascami romantici, che presuppone l’incapacità dell’ascoltatore di recepire un linguaggio minimamente complesso o distante dal patrimonio folclorico locale, è riconoscibile ad esempio anche nelle partiture di Venediict Pushkov (1896 – 1971), che esattamente come Chrennikov ed altri è particolarmente coinvolto in film, quali Gli invincibili (Nepobedimije, 1942, Sergej Gerasimov e Mikhail Kalatozishvili) o C’era una volta una bimba (Zila-byla levochka, 1944, Viktor Eysymont), che durante tutto il periodo bellico e immediatamente successivo continuano ad esaltare l’eroismo del popolo russo e la sua genuina semplicità, specie se inquadrato nello splendore dell’era socialista.

Sono tutti lavori, si badi, formalmente dignitosissimi e spesso molto accattivanti, perchè tutti questi compositori potevano comunque vantare un retroterra e delle radici ben piantate nell’Ottocento dei grandi maestri, ma nelle quali non spira un soffio di autentica vitalità, non germoglia il minimo seme di una tensione etica ed estetica che superi quella fase storica e si proietti in qualche modo verso il futuro.

Occorre attendere gli anni Cinquanta e più ancora i Sessanta perché qualcosa si muova, nel cinema russo e nella sua musica, dove il disgelo arriva comunque tardi ed è di assai breve durata. Ed è una piacevole sorpresa trovare, tra gli apripista, una donna. Nadezhda Simonyan (1922 – 1997), origini armene e un passato di compositrice zelantemente “sovietica”, ma autrice nel 1960 del finissimo arabesco musicale, intessuto anche di brani preesistenti, per La signora dal cagnolino (Dama s sobachkoy, Iosif Kheifits), dal racconto di Anton Čechov.

Si avverte qui un mutamento di atteggiamento e di clima, accompagnato dall’abbandono dei toni enfatici in favore di una briosità speranzosa e scanzonata, così ome nei lavori di Andrej Petrov (1930 – 2006), il cui ottimismo espressivo non è imposto con forza ma sentito come un alleggerimento psicologico e pudicamente intimo, trasparente, in A zonzo per Mosca (Ya shagayu po Moskve, 1964, Georgyi Danelija) e Si chiamava Roberto (Yego zvali Robert, 1967, Ilya Olshvanger), surreale fanta-comedy con il mimo francese Marcel Marceau nel ruolo di se stesso; fino, molto più tardi, all’incursione in territori grotteschi e beffardi con Khrustalyov, My Car! (Chrustalëv, mašinu!, 1998, Aleksej German), ricostruzione durissima, nerissima e quasi demenziale degli ultimi giorni di Stalin.

Altra pietra miliare di questa “nouvelle vague” in cui la dimensione privata sostituisce quella pubblica, ideologica e propagandistica, è Quando volano le cicogne (Letjat zhuravli, 1957, Mikhail Kalatozov), struggente love story sul tragico sfondo bellico che riceve da Moisej Vajnberg (1919 – 1996), compositore ebreo polacco trapiantato a Mosca, un commento di asciutto e commovente lirismo, alternato a inquietanti deformazioni percussionistiche. E di Kalatozov è anche la coproduzione italo-russa La tenda rossa (Krasnaya palatka, 1969), spettacolare ricostruzione all-cast della disastrosa spedizione artica di Umberto Nobile nel 1928 a bordo del dirigibile “Italia”, che accanto alla musica magnificamente estatica e contemplativa ma anche inquietante di Ennio Morricone per la versione internazionale, ne affianca una molto più dimessa per la versione russa, oscillante tra jazz e tematismo disimpegnato, a firma di Aleksandr Zatsepin (classe 1926), figura di compositore dalla biografia tormentata, figlio di un chirurgo incarcerato da Stalin nel ’41 e divenuto musicista sotto l’esercito.

Ma è soprattutto con il farsi largo di nuove figure d’autore che altrettante personalità musicali emergono sulla scena. Fra le prime domina su tutte quella di Andrej Tarkovskij, inesorabile poeta dei silenzi e delle attese, creatore di un cinema dove interrogativi e imperativi etici si concentrano in uno stile spoglio e insieme di enorme suggestione. Ed il compositore Eduard Artemyev (1937 – 2022) è la “voce” sonora di questo cinema, da Solaris (Solyaris, 1972) a Lo specchio (Zerkalo, 1975) a Stalker (Id., 1979): studioso e pioniere di musica elettronica e molto sensibile alle suggestioni dell’avanguardia europea, Artemyev è uno straordinario tessitore di trame sonore impalpabili ma evocative, che sembrano provenire da un altro mondo, ed è particolarmente abile nell’adattarsi a proficue collaborazioni anche con registi molto diversi da Tarkovskij, quali Andrej Koncalovskij (Siberiade, 1979) e soprattutto il vulcanico fratello minore di quest’ultimo, Nikita Mikhalkov (Partitura incompiuta per pianola meccanica, Neokonchennaya pyesa dlya mekhanicheskogo pianino, 1976; Il barbiere di Siberia, Sibirskiy tsiryulnik, 1998).

Un altro compositore di questa nuova generazione e caro ai primi film tarkovskijani è Vyacheslav Ovchinnikov (1936 – 2019), che in L’infanzia di Ivan (Ivanovo detstvo, 1962) prosciuga i propri interventi in una direzione armonicamente instabile e decisamente innovatrice, raggiungendo poi in Andrei Rublëv (Id., 1969) uno straordinario risultato di polittico musicale desunto da ogni fonte e materiale possibile, in totale sintonia con la parabola del regista che rilegge la storia della Russia quattrocentesca attraverso le peripezie del suo grande pittore di icone.

Felicissimo nel melodismo ma mai retorico, Ovchinnikov non teme di inoltrarsi nello smisurato affresco tolstojano di Guerra e pace (Nojna i mir, 1965-1968, distribuito in Italia come Natascia – L’incendio di Mosca) o in una pagina celeberrima della storia quale Waterloo (1970), entrambi di Sergej Bondarchuk, dando libero sfogo ad una sontuosa vena kolossal che tuttavia sembra guardare direttamente alla fiammeggiante ed essenziale epicità di un Musorgskij (di cui nell 1986 curerà peraltro, sempre per Bondarchuk, la versione filmata del Boris Godunov) più che ai canoni della sterile e ripetitiva retorica dell’era sovietica.

In direzioni diverse, ma con non minor radicalità nel rompere con il passato, si muovono anche figure di cineasti come Vasilij Šukšin e Aleksandr Sokurov. Poliedrica figura di attore, scrittore e regista il primo, scomparso appena 45enne nel 1974, di origini contadine (suo padre cadde sotto le grandi purghe staliniane), nella sua breve carriera ha cantato con toni tanto accorati quanto privi di enfasi la bellezza aspra della vita rurale, attraverso storie e protagonisti di estrazione semplice; ed ha trovato nelle partiture scarne, sobriamente liriche e schiette di Pavel Cekalov (1927 – 1996) un contrappunto fedele e toccante, culminato nel suo film forse più famoso anche in Occidente, Viburno rosso (Kalina krasnaya, 1974), vicenda tutta privata di riscatto e redenzione, ispiratore anche di un poema sinfonico dedicato alla memoria del regista e composto dal grande direttore d’orchestra russo Evgenij Svetlanov (1928 – 2002).

Di una generazione posteriore, il siberiano Sokurov è personalità complessa e problematica, coltissima e indipendente, dalla forte vocazione sperimentale, in costante rotta di collisione con le autorità e la censura di Stato (anche di recente, sulla guerra in Ucraina) e titolare di un cinema rigoroso e spietatamente lucido, dal pacifismo umanista mai scontato, specie nella sua “trilogia del Potere” costituita da Moloch (Id., 1999), Toro (Telec, 2001) e Il sole (Solnce, 2005). Qui – e altrove, come in Faust (Id., 2011) – l’approccio stilisticamente gelido, quasi autoptico, alle figure di Hitler, Lenin e Hirohito richiede e ottiene dal suo compositore di fiducia Andrey Sigle (classe 1964) un parallelo approccio musicale che coinvolge la complessiva dimensione del suono, dove silenzi, lacerti melodici, effetti e interventi di scabra essenzialità si saldano in paesaggi sonori di elaboratissima fattura.

D’altronde l’amore del regista per il patrimonio musicale autoctono è evidente sia nel tour de force virtuosistico Arca russa (Russkij Kovčeg, 2002), dove al compositore Sergey Yevtushenko (classe 1956) è richiesto soprattutto il coordinamento di un parterre musicale di lusso nel quale svetta l’orchestra pietroburghese del Teatro Marinskij sotto la guida di Valerij Gergiev, sia in Alexandra (Id., 1997) dove Sigle accompagna le vicende di un’anziana donna in visita al nipote sul fronte ceceno, interpretata dal leggendario soprano Galina Vishnevskaya (moglie dell’altrettanto leggendario violoncellista Mstislav Rostropovič), sia infine in Sonata per viola (Al’tovaya Sonata: Dmitrij Shostakovich, 1981), straordinaria biografia-intervista-omaggio al compositore della Lady Macbeth.

Ad un giovanissimo musicista delle nuove leve, Murat Kabardokov, classe 1986, Sokurov si rivolge invece per il suo ultimo Fairytale – Una fiaba (Skazka, 2022), visionaria ed evocativa riflessione fantastica di nuovo sulla Storia e i suoi artefici, da Napoleone a Hitler, da Stalin a Churchill e Mussolini, ritratti come fantasmi dell’imperialismo eterno, ed ottiene dal compositore, di formazione classico-pianistica, un commento sofisticatissimo, sospeso fra tradizione naturalistica, squisitamente concertistica e pulsioni “pop”.


di Roberto Pugliese
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