Da Prokof’ev a Prokof’ev, il potere vuole la sua musica (Seconda parte)
Per la rubrica "Cinema è storia", CineCriticaWeb pubblica la seconda parte di un saggio di Roberto Pugliese sul rapporto tra il potere politico e la musica per il cinema, dall'URSS alla Russia di oggi.
Se i due Sergej (Prokof’ev ed Ėjzenštejn) alla fine si guadagnarono, secondo quanto dice la leggenda, la bonaria assoluzione di Stalin dai propri peccati precedenti («dopo tutto, compagni, siete dei buoni bolscevichi!») ben diverso e più tormentato fu il caso di Šostakóvič, la cui intera esistenza, persino nei quasi vent’anni in cui sopravvisse al dittatore, si svolse in continuo, angoscioso bilico tra onori e persecuzioni, applausi e censure, lusinghe e minacce: in un costante conflitto che ne fa una delle figure più tragiche del panorama culturale nella Russia del Novecento.
La sua traiettoria al servizio del cinema è molto lunga, si snoda lungo un quarantennio, dagli albori del sonoro a tutti gli anni ’60, in realtà iniziando anche prima, quando il giovane compositore si guadagnava da vivere suonando e improvvisando al pianoforte per i film muti, incarnando in tal modo un ruolo tipico dei primi anni della settima arte.
Ancor più che in Prokof’ev, in Šostakóvič svanisce completamente qualsiasi distinzione tra comporre per il cinema o per il teatro, il repertorio sinfonico o da camera, il balletto, il teatro. Il compositore, che sposa in pieno gli impulsi innovatori e ribellisti della prima fase della Rivoluzione d’Ottobre, è perfettamente consapevole dell’importanza che il cinema riveste nel diffondere e sottolineare gli ideali rivoluzionari ma, come accadde a molti altri artisti, ne sposa soprattutto le tensioni sperimentali, di ricerca, di destabilizzante rottura con la tradizione; condividendo in tal modo con scrittori, pittori, architetti, drammaturghi, quella breve ma fulminante stagione che corrispose alle Avanguardie Storiche sovietiche, e che si sarebbe infranta contro l’assolutismo ottuso e retrogrado dello stalinismo, stroncando carriere e vite (poco ci mancò anche per la sua) e rifluendo in quell’ondata di conservatorismo cui accennava proprio Sergio Miceli.
“Testimone” (come titola la sua discussa autobiografia raccolta da Solomon Volkov e pubblicata nel 1979) del proprio tempo come pochi altri, Šostakóvič ha attraversato tutte queste stagioni: i furori dell’avanguardia, la “normalizzazione”, la propaganda, l’asservimento ai canoni ždanoviani cui però rimase sempre sotterraneamente ostile attirandosi pericolosissime scomuniche, il disgelo. Periodi che trovano puntuale riscontro anche nella sua vasta produzione cinematografica, cartina di tornasole preziosa del complesso itinerario compiuto dalla vita culturale e musicale in Unione Sovietica.
La prima fase coincide con il periodo più vivido delle arti scaturite dalla spinta rivoluzionaria: sono gli anni di Majakovskij e Malevic in letteratura e pittura, del cubofuturismo e del Fronte di Sinistra delle Arti, dei primi e più celebri film di Ėjzenštejn e Pudovkin. Talento precoce e vulcanico, Šostakóvič balza sulla scena giovanissimo con la sua prima Sinfonia e con le opere Il naso (1928) e Una Lady Macbeth del distretto di Mzensk (1934), con la quale si avvia l’inizio della sua rotta di collisione con il regime staliniano.
L’irrequietezza ritmica, l’anticonvenzionalità dell’orchestrazione, le spasmodiche tensioni che attraversano le sue composizioni, cui non sono estranee le suggestioni delle contemporanee avanguardie occidentali, si riscontrano anche nelle partiture per i film di una coppia di registi cari al musicista, Grigorij Kozincev e Leonid Trauberg, anch’essi immersi in quel ribollente clima di rinnovamento che attraversò, brevemente ma intensamente, le arti sovietiche sino alla metà degli anni Trenta. Nascono così film come Sola (Odna, 1931), storia tra sogno e realtà di un’insegnante leningradese, e soprattutto La nuova Babilonia (Novyi Vavivlon, 1929), che ricostruisce la storia della Comune di Parigi del 1871 con un impeto visionario e a tratti surreale di straordinaria violenza emotiva; titoli cui va aggiunto Le montagne dorate (Zlatyye gory, 1931, Sergej Jutkevič), rievocazione di uno sciopero pacifista nella San Pietroburgo del 1914.
Il compositore, che sonorizza solo successivamente le prime due pellicole mute, così come farà più tardi, secondo una pratica diffusa fra i compositori dell’epoca, per un film-manifesto quale Ottobre (Oktyabr, 1927, di Ėjzenštejn), vi appare al meglio delle proprie risorse creative, imprevedibile negli sviluppi sinfonici e inesauribile nell’inventiva strumentale; ma sono anche le doti che per i canoni di partito risultano viziati da quel “formalismo” che equivarrà, da lì in poi, ad una condanna (spesso capitale) per molti artisti.
Proprio la stroncatura ufficiale della sua Lady Macbeth e la sua messa all’indice da parte dell’establishment musicale sovietico costringe il compositore, per sopravvivere, a muoversi da quel momento in poi su un sottilissimo confine tra ossequio ai dettami dell’ideologia e ispirazione personale, operando in una zona di ambiguità e duplicità spesso additate come limiti anche morali dai suoi critici occidentali, in realtà foriere di un linguaggio estremamente sofisticato e tormentato, nel quale trovano posto anche calcolati quanto esplosivi momenti di rivolta, spesso satirica e irridente, verso il pensiero unico ufficiale (si pensi solo all’allucinato, delirante e derisorio trionfalismo con cui si chiude la sua Quinta Sinfonia, del 1937, che avrebbe dovuto fungere, come fu scritto, da “risposta di un compositore sovietico alle giuste critiche”, ossia da opera riparatrice per i deviazionismi precedenti).
Questa ondata di conservatorismo coatto si traduce, per Šostakóvič, in un sontuoso ricorso ai canti popolari russi e all’eredità musorgskijana (non dimentichiamo che il compositore firmerà tra il 1939 e il 1940 una propria orchestrazione del Boris Godunov), con accenti sinceri e suggestivi di partecipazione ad un’epopea che, in quegli anni, svolgeva anche una indispensabile funzione di propaganda bellica antinazista.
Capolavoro di questa fase è la Trilogija o Maksime di Kozincev e Trauberg, composta da La giovinezza di Massimo (Yunost Maksima, 1935), Il ritorno di Massimo (Vozvrashchenie Maksima, 1937) e Quartiere di Vyborg (Vyborgskaya storona, 1939). Vi si narra l’irresistibile ascesa di un eroe rivoluzionario di cui al titolo, dalla prima sommossa del 1905 soffocata nel sangue (cui Šostakóvič dedicherà la già menzionata Sinfonia n.11) ai fatti del ’17, cantata con i toni del poema epico-cavalleresco al quale il musicista aderisce con entusiasmo coloristico e ipernazionalistico, scolpendo un trittico di partiture scintillanti e intrise di “russità”, ma sempre sorvegliate da quel dinamismo ritmico e da quella inquietudine armonica che rimarranno le sue costanti stilistiche sino almeno a tutti gli anni Cinquanta.
Non meno programmatiche, nella loro retorica patriottica e ideologica, anche le musiche per Il grande cittadino (Velikiy grazhdanin, 1938, Fridrikh Ermler), biografia romanzata e sotto altro nome di quel Sergej Kirov strettissimo collaboratore di Stalin, assassinato nel fatidico e ricorrente 1934 da un militante dell’opposizione di sinistra (ma si disse su commissione dello stesso Stalin), con un atto dal quale il dittatore prenderà il destro per avviare la terrificante repressione ed eliminazione di tutti i gruppi di opposizione alla propria linea, sfociata nei processi e nelle esecuzioni del 1936; mentre sotto il grande ombrello della propaganda c’è posto anche per commedie “didattiche” come L’uomo con il fucile (Chelovek s ruzhyom, 1938, Sergej Jutkevič), ritratto di un contadinotto ignorante improvvisamente catapultato al fronte e, suo malgrado, eroe in prima linea.
A conflitto finito (e vinto), il sistema di potere staliniano si consolida e rafforza continuando ad avere nel cinema un formidabile strumento di propaganda soprattutto nel clima della guerra fredda che subito s’instaura. Ma, esaurita qualsiasi spinta innovativa e spentosi anche il minimo barlume di uno stile che superi in qualche modo i confini della retorica celebrativa, i film di questi anni non fanno che rievocare episodi della “Grande Guerra Patriottica” per enfatizzarne figure e gesta eroiche. Sono le committenze per le quali Šostakóvič fa largo appello al proprio sinfonismo vibrante, esaltato e martellante, talvolta memore della celebre Sinfonia n.7 op.60 in do maggiore Leningrado, scritta nel 1941 sotto i bombardamenti nazisti e dedicata al tragico assedio della città.
Se ne ravvisano echi nella Giovane guardia (Molodaya guardyia, 1948, Sergej Gerasimov), dal romanzo di Aleksandr Fadeev, ambientato nella città ucraina di Krasnodon occupata dai nazisti (circostanza che oggi appare in tutta la sua drammatica ironia), e in Incontro sull’Elba (Vstrecha na Elbe, 1949, Grigorij Aleksandrov), smaccato pamphlet antiamericano, già prefigurante l’età del Muro, dove gli Alleati sono descritti come restauratori del fascismo nella Germania Ovest. Una circostanza che solletica l’onnivoro polistilismo del compositore in chiave satirica, con il ricorso – contrapposto ai toni squillanti e apologetici delle pagine “russe” – a scatenati e umoristici boogie-woogie.
Il film apicale di tutta questa fase è sicuramente La caduta di Berlino (Padenie Berlina, 1950, Mikhail Ciaureli), un dispendioso e lussureggiante kolossal, nel quale le vicende belliche sono inquadrate interamente dal punto di vista di uno Stalin eroico, paterno e rassicurante, impersonato da Mikhail Gelovani, attore celebre per la sua impressionante somiglianza con il modello. Siamo allo zenith del culto della personalità, e nello stesso tempo dello stile declamatorio, trionfale e lussureggiante del musicista, dilagante anche nelle partiture per film come L’indimenticabile anno 1919 (Nezabyvaemyy 1919 god, 1952, Mikhail Ciaureli) o Il primo scaglione (Pervyy eshelon, 1956, Mikhail Kalatozov).
La scomparsa del capo sovietico nel ’53 e la destalinizzazione avviata dal suo successore Nikita Chruščëv con il celebre discorso-denuncia pronunciato il 25 febbraio 1956 al XX Congresso del PCUS non causano immediati contraccolpi positivi sulla vita culturale e musicale del paese, che resta in ostaggio di direttive ideologiche durissime a morire, ed in particolare sulla personalità di Šostakóvič (la cui scomparsa avviene, ricordiamolo, in piena era Brežnev), irrimediabilmente segnata da quella forzata ambiguità, fatta di onori e minacce, spesso rimproveratagli a Occidente.
Ma proprio il suo lavoro nel cinema, che prosegue intenso, risente più prontamente del cambiamento, così come poi tutta la sua produzione a partire dagli anni ’60: al pompierismo sinfonico e roboante delle partiture “di regime” succedono tonalità molto più raccolte, intime, liriche e malinconiche, anch’esse in gran parte debitrici al patrimonio musicale popolare, ma nelle quali si fa largo anche una scrittura più tesa, asciutta e moderna. Nascono così già nel 1949 Michurin (Id.), di quell’Aleksandr Dovzhenko che era stato peraltro un protagonista del cinema sovietico “ufficiale”, biografia del celebre e lungimirante agronomo ucraino, e il singolare Il tafano (Ovod, 1955, Aleksandr Fajncimmer), tratto dal romanzo omonimo della scrittrice irlandese Ethel L. Boole (sposata all’antiquario polacco Wilfrid M. Voynich), ambientato in epoca risorgimentale tra Granducato di Toscana e Romagna pontificia, e divenuto nei paesi di area marxista lettura pressoché obbligatoria.
La svolta stilistica nelle partiture filmiche del compositore si accentua, in una direzione sempre più intimista, per il documentario di Joris Ivens Il canto dei fiumi (Das Lied der Ströme, 1954), dove Šostakóvič compone una serie di canzoni appositamente per il celebre basso afroamericano Paul Robeson. Il mutamento di clima, di linguaggio e di pensiero musicali sono evidenti anche nella struggente partitura per un film che pure si rifà a vicende della guerra, Cinque giorni, cinque notti (Pyat Dney, Pyat Noche, 1961), coproduzione russo-tedesca di Lev Arnshtam e Heinz Thiel, sul ritorno nella Dresda rasa al suolo dai bombardamenti, al seguito dell’Armata Rossa, di un comunista tedesco in esilio.
Ma il testamento artistico del musicista, oltre che nelle sue ultime composizioni orchestrali e da camera, è chiaramente leggibile nelle due ultime fatiche scespiriane per la coppia Kozincev-Trauberg con cui tutto era iniziato: Amleto (Gamlet, 1964) e Re Lear (Karol Lir, 1970). Qui Šostakóvič, che per queste stesse due tragedie lavora anche alle musiche di scena teatrali, prosciuga e affila la propria scrittura in una chiave di esasperata, livida drammaticità, con un’orchestrazione violentemente contrastata che sembra quasi rifarsi al suo periodo più vulcanico e anticonformista, precedente la “scomunica” inflittagli a metà degli anni ’30.
di Roberto Pugliese