Da Prokof’ev a Prokof’ev, il potere vuole la sua musica (Quarta parte)
Per la rubrica "Cinema è storia", CineCriticaWeb pubblica la quarta ed ultima parte di un saggio di Roberto Pugliese sul rapporto tra il potere politico e la musica per il cinema, dall'URSS alla Russia di oggi.
La scena musicale russa si popola poi di protagonisti in netta discontinuità con il passato, improntati ad un marcato polistilismo che assorbe influssi e linguaggi i più eterogenei, compresi (sia pure in ritardo rispetto all’Europa) quelli delle avanguardie, ma tutti – ed in questo c’è una coerenza con i maestri dei decenni passati – pronti a sperimentare anche nel cinema una vocazione paritaria: un cinema che, proprio perché finalmente affrancato da una storiografia ufficiale incombente, può alzare lo asguardo verso nuovi orizzonti e nuove narrazioni.
Su tutte queste figure svetta Al’fred Garrievič Šnitke (1934 – 1998), personalità di instancabile eclettismo e vorace curiosità intellettuale, formatosi negli ambienti ufficiali degli anni ’50 ma poi approdato a pirotecniche commistioni tra sinfonismo, jazz, musica rinascimentale, elettronica e quant’altro. A differenza dei suoi colleghi però, Šnitke viveva il suo rapporto con il cinema malvolentieri, come una sorta di “necessità di sopravvivenza”, tuttavia sottovalutando (raramente gli artisti sono buoni giudici di se stessi) l’apporto innovatore e anticonvenzionale che vi arrecava.
Sono caratteristiche evidenti sin da Introduzione alla vita (Vstupleniye, 1963, Igor’ Talankin), amaro squarcio sulla condizione giovanile durante la Seconda Guerra, in cui il compositore essicca l’organico strumentale a poche voci (chitarra, xilofono, percussioni) contrapponendosi vistosamente alle pompose sonorità dei decenni precedenti e ottenendo una cifra malinconica lucida e riflessiva. Questi tratti stilistici accompagneranno tutta la copiosa produzione di Šnitke per il cinema, che copre trascrizioni teatrali di prestigio come Zio Vanja (Diadja Vanja, 1970, Andrej Koncalovskij: partitura di squisita, sommessa fattura) e Il gabbiano (Chajka, 1972, Yuri Karasik), ma anche film “maledetti” come Agonia (Agoniya, 1981, di Elem Klimov, regista cui il musicista è molto legato), a lungo bloccato dalla censura per la spietatezza con cui ripercorre la vita e le scelleratezze di Rasputin, il monaco eminenza nera degli ultimi Romanov, e cui Šnitke offre una partitura di feroce, tagliente anarchia formale; o drammi sentimentali sempre sullo sfondo bellico ma omai completamente rivolti alla dimensione privata come La caduta delle stelle (Zvezdopad, 1981, Igor’ Talankin), dove fanno la propria comparsa anche parafrasi čajkovskiane; riuscendo ad essere antiretorico persino in occasioni impegnative come la sonorizzazione del 1992 per La fine di San Pietroburgo (Konets Sankt-Peterburga, 1927), un classico pudovkiniano sulla presa di coscienza rivoluzionaria di un contadino.
Meno prolifico per il grande schermo è un altro protagonista di questa nuova fase, Rodion Konstantinovič Ščedrin (1932), più abile e meno ultimativo di Šnitke nel destreggiarsi fra tradizione e modernità. Autore – come quasi tutti – di sinfonie, poemi sinfonici, opere, balletti (tra l’altro è stato marito della grande danzatrice Majja Pliséckaja), questo compositore si muove con destrezza sul terreno di un linguaggio pacato, neoromantico e abilmente nostalgico, specie in film che continuano a guardare criticamente alla storia passata come l’esemplare Il comunista (Kommunist, 1958, Yurij Raizman) o il kolossal bellico Aquile di Stalingrado (Normandie – Niémen, 1960, Jean Dréville e Damir Vyatich-Berezhnykh), dimostrandosi però più a proprio agio in sussurrate vicende intimiste come Breve storia di un piccolo racconto (Syuzhet dlya nebolshogo rasskaza, 1969, Sergej Jutkevič) o in una delle innumerevoli versioni che il cinema ha dedicato ad Anna Karenina (Id., 1969, Aleksandr Zarkhi), poi divenuta anche balletto interpretato dalla consorte e dove Ščedrin dà libero e coinvolgente sfogo alla propria vena passionale e ottocentesca.
In realtà alcuni testi sacri della letteratura russa sembrano ricorrere nelle filmografie di questi ed altri compositori: è il caso del Maestro e Margherita (Master i Margarita), che in un adattamento del 2006 di Yurij Kara utilizza pagine di Šnitke ma che in una miniserie televisiva del 2005 diretta da Vladimir Bortko coinvolge un compositore delle nuove leve, Igor Kornelyuk (classe 1962), cantante e tastierista provetto, in una partitura spigliata e elegantemente aggiornata.
Così come a questa generazione di musicisti appartiene Leonid Desyatnikov (classe 1955), autore di una controversa opera lirica, The children of Rosenthal (2005), e per il cinema collaboratore frequente della stagione a cavallo tra i due millenni, di cui si ricordano almeno Mosca (Moskva, 2000, Alexandr Zeldovich), funambolico mix di stili comprese canzoni contadine, e Van Goghs (Van Gogi, 2018, Sergey Lyvnev), nostalgica meditazione sui confini tra arte, vita e memorie.
C’è poi il caso a sé stante di Sofija Asgatovna Gubajdulina (classe 1931), considerata a buon diritto la più grande compositrice russa di sempre. Origini tartare, figura di netta avanguardia ma interessata a temi mistici e religiosi, è una musicista che ha sempre cercato il nesso suggestivo fra la tradizione pre-sovietica e le conquiste più audaci della musica contemporanea, guadagnandosi per questo un lungo ostracismo da parte delle autorità, interrottosi solo dopo il 1991. Proprio in quegli anni, per ragioni ovviamente economiche, Gubajdulina si accosta al cinema, soprattutto quello di animazione che ben si confà alla sua vena sperimentale, ma non solo.
La sua musica mantiene costantemente toni e colori particolarissimi, irripetibili, come nella versione del 1987 della Sonata a Kreutzer (Kreytserova Sonata, Sofiya Milkina e Mikhail Shvejtser) o nel documentario biografico olandese The Ditvoorst Domains (De domeinen Ditvoorst, 1992, Thom Hoffman), lunga intervista al regista Adriaan Ditvoorst, considerato il padre del cinema d’autore dei Paesi Bassi.
Gubajdulina è, anche per ragioni anagrafiche, l’ultimo anello di congiunzione possibile tra passato e presente nell’itinerario compiuto dalla musica cinematografica russa lungo quasi un secolo. Ma poiché la Storia – anche quella della musica per film – sembra a volte voler tracciare significativi percorsi circolari, ecco che possiamo concludere laddove tutto è cominciato, nel nome di Prokof’ev: ma non di Sergej, bensì di suo nipote Gabriel, londinese di nascita (classe 1975), figlio del secondogenito del grande compositore, l’artista Oleg Prokof’ev.
Musicista, produttore e deejay molto apprezzato, Gabriel – è un dato di queste settimane – ha creato le musiche per la durissima, implacabile e necessaria serie tv britannica Litvinenko – Indagine sulla morte di un dissidente (Litvinenko, 2022, Jim Field Smith), ovvero la storia dell’ex agente dei servizi segreti moscoviti Aleksandr Val’terovič Litvinenko, fiero oppositore di Putin, morto nel 2006 per avvelenamento da polonio-210 e qui interpretato con agghiacciante immedesimazione da David Tennant.
In questa partitura, di ipnotizzante, ossessiva e ricercata monotonia, quasi interamente elettronica a parte alcuni laceranti inserti solistici degli archi, dedicata ad un episodio tragicamente centrale dell’attuale regime moscovita, si salda simbolicamente un percorso lungo quasi un secolo, dalla celebrazione dell’epopea sovietica alla propaganda bellica, dalle imposizioni asfissianti e retrive dei dettami ždanoviani alla breve e contraddittoria stagione del disgelo, culminata in una “nouvelle vague” autoriale (Tarkovskij, German) ristretta ma potentissima. Una stagione condannata ad infrangersi contro il nuovo muro di un’autocrazia imperalista e di una vocazione al dominio che non erano – evidentemente – sovrastrutture del bolscevismo bensì radicate fisiologicamente nell’anima russa, a costo di risprofondare l’Europa in un nuovo scenario di guerra.
Apparentemente un passato che non passa, dunque. O un destino, questo, che sembra incombere inevitabile anche sulla vita culturale di quell’immenso paese, cinema e musica compresi, ma che forse proprio attraverso le voci di dissenso e di opposizione che continuano – malgrado la repressione – a levarsi nel campo delle arti, può in qualche modo essere cambiato, aprendo la strada ad una nuova stagione di speranza e di libertà.
di Roberto Pugliese