Operazioni “Cicero”

"Cicero" era Elyesa Bazna, cameriere personale di Hughe Katchbull-Hugessen, fino al 1944 l’ambasciatore britannico ad Ankara. Le Operazioni "Cicero" furono invece quelle ordite prima in libreria e poi al cinema, nello sfavillante gioiello di Joseph L. Mankiewicz. Ma erché a Elyesa Bazna viene assegnato d’ufficio quel soprannome?

Il suo vero nome era Elyesa Bazna. “Cicero” era quello in codice del cameriere personale di un diplomatico, Hughe Katchbull-Hugessen, fino al 1944 l’ambasciatore britannico ad Ankara. La scelta di ribattezzarlo “Cicero”, per i suoi servizi di spionaggio resi ai servizi segreti del Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale, la racconta nel libro di memorie di Ludwig Carl Moyzisch, a sua volta diplomatico della Germania nazista sempre ad Ankara. Moyzisch coordina la celebre “Operazione Cicero”, che diventa non a caso anche il titolo del libro pubblicato nel 1950 da cui Joseph Leo Mankiewicz nel 1952 trae il film Five Fingers con James Mason nel ruolo principale dell’insospettabile spia, tradotto in Italia direttamente Operazione Cicero. I due anni che intercorrono tra l’uscita in libreria di Operation Cicero e il film non omonimo sono determinanti per comprendere il ruolo giocato dalla figura di Marco Tullio Cicerone sul grande schermo.
Ma prima di afferrarne per sommi capi la pista indiziaria che lo trasferisce dalla sua epoca alla drammaturgia shakespeariana, quindi al cinema inserito nello scacchiere contiguo e insidioso della Seconda guerra mondiale e della Guerra fredda, nelle modalità del film bellico o del peplum, occorre soffermarsi sull’elemento onomastico di partenza.
Perché ad Elyesa Bazna viene assegnato d’ufficio quel soprannome? Fa testo la versione romanzata della vicenda che la persona appunto più competente e informata dei fatti ha voluto dare alle stampe, quel Ludwig Carl Moyzisch che a suo dire è stato l’ideatore della singolare scelta del “nome convenzionale”. Motivo per cui ne trascrive con orgoglio la circostanza forse già pensando di vendere i diritti della sua opera veritiera e letteraria a un tempo, a Hollywood:

«Quel ragazzo deve avere un nome, disse l’Ambasciatore pensieroso – per i bisogni della nostra corrispondenza dobbiamo dargli un nome convenzionale. Come lo chiameremo? Ci avete pensato?»
«Non ancora, signore; che ne direste se lo chiamassimo Pierre? È il nome con il quale si è presentato al telefono, ed io sono certo che non è il suo vero.»
«Non va bene, ragazzo mio, manca d’immaginazione; dobbiamo dargli un nome segreto che lui stesso ignorerà. Poiché i suoi documenti sono particolarmente eloquenti, lo chiameremo Cicero.»
Fu così che il cameriere privato dell’Ambasciatore d’Inghilterra, dell’età di circa cinquant’anni, fu nuovamente battezzato in mia presenza. Egli ricevette il nome del grande Romano e, da ciò che so, ebbe il suo stesso destino.

Moyzisch scrive Operation Cicero, che preferiamo qui lasciare con il titolo originale onde non creare confusione con il film Five Fingers che solo nella versione italiana si chiama nello stesso modo, con un occhio all’industria cinematografica statunitense. Industria che, sulla falsariga delle trame che condussero Cicerone, quello vero, tra i proscritti, quindi alla morte, nel frattempo sta affrontando al suo interno una resa dei conti interna senza esclusione di colpi tra amici e colleghi di vecchia data nel contesto culturale, ideologico, psicologico avvelenato e creato ad hoc dalle inchieste contro i presunti simpatizzanti o militanti comunisti. La “caccia alle streghe” scatenata dal senatore repubblicano del Wisconsin, lo spregiudicato, abile e tracotante Joseph McCarthy, non soltanto non risparmia Hollywood, ma la prende di mira come cassa di risonanza per una maggiore e sfrontata visibilità a scopi propagandistici. Persino Joseph Leo Mankievicz – è storia nota – è messo in mezzo. Fa fede il suo racconto a Peter Bogdanovich. L’episodio storico della lunga e travagliata riunione della DGA del 22 ottobre 1950 incide di sicuro sull’atteggiamento dell’autore, già assai esperto in intrighi nei quali la menzogna verbale e il raggiro regnano sovrani, nei confronti dell’opinione pubblica e sulla facilità con cui questa può essere manipolata. Non per niente «qualcosa di quel clima inquisitorio si può ritrovare nel film che gira subito dopo», come scrive Alberto Morsiani nel suo castoro su Mankiewicz. Come non cogliere infatti un riflesso neppure tanto celato in People Will Talk (La gente mormora, 1951)? Soprattutto non sorprende a questo punto l’entrata in scena, ripetutamente, del personaggio di “Cicero” nei successivi Five Fingers e Julius Caesar (Giulio Cesare, 1953), dove addirittura è l’omonima tragedia di William Shakeaspeare a fornire a Mankiewicz l’occasione di sferrare un attacco diretto, frontale, inequivocabile, seppure insospettabile, contro il maccartismo. “Cicero”, dislocato ora nel recente gioco spionistico della guerra, ora ricollocato nella sua epoca storica di riferimento, riveduta e corretta da Shakespeare, diventa una sorta di passepartout intercambiabile mediante il quale Mankiewicz denuncia ora gli abusi di un potere che raggira clamorosamente il popolo, come fa Antonio commemorando con progressivo intento vendicativo il defunto Cesare e preparando il terreno per la “lista nera” o “black list”, alla lettera, già nell’originale shakespeariano, in cui finisce anche il nome del senatore Cicerone. Donde la sua condanna a morte. All’autore cinematografico di Five Fingers e Julius Caesar non occorre un soggetto originale sugli anni bui dell’America sotto McCarthy. L’America in guerra, una guerra divisiva, la Guerra fredda, sul fronte interno. Il romanzo storico-avventuroso di Moyzisch e la tragedia altrettanto storica di Shakespeare gliene forniscono addirittura due. Già pronti. Ineccepibili. Quando realizza Five Fingers, da Operation Cicero, Mankiewicz ha di sicuro già in mente Cicerone, quindi l’ingrata e immotivata morte di un’intellettuale che finisce sulla “lista nera” all’improvviso. E immagina, sulla falsariga shakespeariana, se stesso come un novello “Cicero”. Da un lato c’è l’omonima vera spia, ambigua, abile, ironica, verso cui Mankiewicz nutre a questo punto una cinica, provocatoria simpatia, esattamente come per Bruto (non per niente il medesimo attore, James Mason, recita la parte di “Cicero” in Five Fingers e di Bruto in Julius Caesar). Dall’altro c’è proprio Cicero(ne) che sconta il suo destino di personaggio pubblico, maestro di eloquenza, che sconta la pesante, artefatta, implacabile accusa di essere un “traditore”. I due “Cicero” contigui insomma Mankiewicz li concepisce a propria inconfessabile immagine e somiglianza.
Ma per comprendere a fondo il funzionamento sottile di “differenza e ripetizione” messo a punto sul grande schermo in Julius Caesar, occorre riprendere tra le mani il prototipo, intoccabile, teatrale. I riferimenti a Marco Tullio Cicerone nel Julius Caesar di Shakespeare sono tanti quanti ne recepisce fedelmente Mankiewicz nel “suo” Julius Caesar: quattro in tutto.
Il film di Mankiewicz in pratica riprende alla lettera le battute sceniche, collocandole in un’atmosfera noir molto consona a quegli anni bui, quindi all’età d’oro del noir cinematografico classico hollywoodiano. Qualche lieve sforbiciata non solo non modifica la sostanza del discorso, ma ne accelera il decorso secondo pure esigenze di natura filmica. Detto altrimenti, il regista che firma anche la sceneggiatura, ci tiene particolarmente a non discostarsi dal prototipo, allo scopo di rendere se possibile più pungente l’impianto allusivo adattato senza troppe variazioni al tempo e alla temperie del maccartismo.
E per afferrare il nesso con le contingenze maccartiste, la “caccia alle streghe” e la “lista nera” in cui lo stesso Mankiewicz, senza il provvidenziale appoggio e intervento risolutivo di Ford sarebbe persino potuto trovarsi, all’improvviso, per ritorsione, fa quindi testo ciò che il film di Mankiewicz mutua alla lettera da Shakespeare:

Antonio: «Allora, tutti questi devono morire. I loro nomi sono schedati. Anche tuo fratello deve morire, acconsenti, Lepido?»
Lepido: «Acconsento.»
Ottaviano: «Mettilo sulla lista, Antonio.»
Lepido: «A condizione che Publio, il figlio di tua sorella, non viva, Marco Antonio.»
Antonio: «Non vivrà. Guarda, con un segno, io la condanno. Ma Lepido, vai a prendere il testamento di Cesare e vedremo di togliere alcuni oneri dai suoi legati.»
Lepido: «Ci incontriamo qui?»
Antonio: «O qui, o in Campidoglio.»

Mentre Lepido si allontana, rivolto a Ottaviano, Antonio continua:

Antonio: «È proprio un infimo uomo da niente, adatto a fare le commissioni. È giusto che, con il mondo diviso in tre parti, lui debba essere uno dei tre che se lo spartiscono?»
Ottaviano: «E hai ascoltato il suo parere su chi condannare a morte sulla “lista nera” [black list, in originale] e dei proscritti?»
Antonio: «Ottaviano, io ho visto più giorni di te. E sebbene concediamo a quest’uomo tali onori per alleggerire noi stessi da vari scomodi pesi egli se ne farà carico come un asino che trasporta oro gemendo e sudando sotto tale peso, guidato o spinto mentre noi indichiamo la strada. E dopo aver portato il nostro tesoro dove desideriamo allora noi lo liberiamo del peso, e lo lasciamo andare come un asino scarico , a scrollarsi le orecchie e a pascolare.»
Ottaviano: «Fa’ come desideri, ma egli è un soldato provetto e valoroso.»
Antonio: «Lo è anche il mio cavallo, Ottaviano, e per questo lo rimpinzo di foraggio. Ed ora, Ottaviano, ascolta grandi cose: Bruto e Cassio stanno assoldando rinforzi, dobbiamo opporre resistenza. Quindi, che la nostra alleanza venga sancita, e andiamo subito al consiglio per capire come scoprire al meglio i loro segreti e fronteggiare gli aperti pericoli.»
Ottaviano: «Facciamo così, poiché siamo in pericolo, e circondati da molti nemici. Ed io temo che alcuni di quelli che sorridono abbiano in serbo delle malefatte.»

Nel film, Antonio, interpretato da Marlon Brando, andato via Ottaviano, si stiracchia, guarda dal balcone, ruota il busto di Cesare verso di sé, va verso il tavolo, prende tra le mani la “lista nera” soddisfatto e va a sedersi con flemma e gambe accavallate sulla sedia che reca sullo schienale l’aquila romana, simbolo del potere, che un istante prima ha fissato.
Non c’è che dire. Con People Will Talk, quindi con il dittico “ciceroniano” composto da Five Fingers e Julius Caesar l’ineffabile, acuto Joseph Leo Mankiewicz si prende la sua personale, segreta rivincita sull’altro Joseph, Joseph McCarthy.


di AntonGiulio Mancino
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