Le emorroidi dell’Europa
Giuseppe Ghigi ricorda il film diretto nel 1998 da Goran Paskaljević "La polveriera", ancora oggi attualissimo.

«Se i Balcani sono il buco di culo del mondo, qui sei sulle emorroidi». Lo dice un taxista belgradese del film La polveriera (Bure baruta, 1998) di Goran Paskaljević. La guerra e le pulizie etniche che insanguinarono l’ex Jugoslavia negli anni Novanta sembrano una lontana traccia del passato, ma vi è forse lì la frattura dellequilibrio europeo i cui effetti sono oggi esplosi. Sia chiaro: La polveriera non è un film sui conflitti armati di quel periodo, né un’opera esplicitamente politica, registro mai amato dal regista serbo, e nemmeno un’opera che tratta di problematiche sociali o di particolari contesti storici e istituzionali. Eppure è una ballata terribilmente lucida sulla degradazione dei valori, sull’annullamento dell’etica e dei principi della civile convivenza umana di una popolazione, e di un’area del continente europeo che ha perduto il senso del vivere.
«In mancanza di veri, profondi cambiamenti nella società – dichiarava Paskaljević nel presentare il film – l’odio minaccia di ritornare in primo piano e di dar fuoco alla miccia che, come in passato, farà esplodere questo barile di polvere, con le conseguenze che si possono immaginare per una parte dell’Europa».
Ovviamente, il conflitto ucraino ha ragioni molto più complesse di quello jugoslavo, ma quel che è successo dalla fine del socialismo reale, che non ha visto quei necessari “profondi cambiamenti” in senso democratico nelle strutture istituzionali e sociali, è il terreno di coltura dell’odio, della violenza, della guerra “etnica” e di sopraffazione dei popoli dell’est del nostro continente. Quel che si è prodotto, come sostiene il regista, «è una società basata sulla legge del più forte, ed è questa la legge a essere imperante nella maggior parte dei Paesi slavi dove la cultura del fatalismo distrugge qualunque iniziativa di cambiamento».
Il conflitto jugoslavo è stato una sorta di paradigma e La polveriera racconta ciò che sta nelle viscere della società, non nella superficie fatta di combattimenti, uccisioni, bombardamenti, ma ciò che è accaduto nella testa dei cittadini. Tutto ha inizio e finisce all’interno del Cabaret Balkan, poiché la situazione d’allora non meritava, secondo Paskaljević, palcoscenici o registri drammatici, e dove un attore annuncia che ne vedremo delle belle e alla fine brinda alla nostra salute. In mezzo, c’è una lunga nottata, una delle tante della Belgrado capitale del nulla, città allora costretta dapprima all’embargo e poi al conflitto che hanno devastato non solo il tessuto economico, ma anche le coscienze dei suoi abitanti.
Sono la violenza, la sopraffazione, la follia, lo smarrimento, la difficoltà della rivolta e la mancanza di punti di riferimento morale a regolare i rapporti tra le persone. C’è chi uccide l’amico più caro sotto la doccia dopo avergli detto ciò che era stato nascosto per anni; chi impazzisce per un graffio in un banale scontro tra automobili dando il via a una catena di crudeli colpi e contraccolpi che si allarga a macchia d’olio; chi sopravvive trafficando sigarette e alcolici o si impadronisce di un autobus, terrorizzando i passeggeri solo perché il conducente tarda a partire e chi, come il tenero Mané, torna nella sua disastrata città natale per lanciare inutilmente un messaggio d’amore. Non sono solo i Balcani la polveriera pronta ad esplodere alla prima provocazione irrisolta o a desideri di violenza espansionistica: polveriera è ormai ogni singolo individuo incapace di controllare razionalmente le proprie energie distruttive.
La Storia si incunea a forza in quella quotidiana, forse più “universale”, anche se minuta e fatta di piccoli drammi esistenziali, di lotta per la sopravvivenza, di emarginazione, solitudine e violenza. Il vero epifenomeno non è per Paskaljević, la quotidianità, bensì la Storia: l’essenziale starebbe nei “comuni mortali” e non negli accadimenti collettivi. Se è vero che non “ci sono cose da un uomo solo”, che l’impegno e l’attenzione di un individuo non possono cambiare da soli il corso della Storia, è anche vero che i singoli non sono atomi solitari che non vivono le contraddizioni del presente e che il loro agire ed essere cambia il corso del Mondo. I personaggi del film sono l’espressione della più generale violenza dei fatti “universali” e a loro volta essi generano violenza.
Nonostante tante barbarie, lo sguardo del regista resta segnato da una profonda coesione con i suoi personaggi che credono di avere in pugno la loro vita e sono in realtà trascinati nella spirale di follia balcanica: nessuno di loro è veramente violento in sé; nessuno, in altre condizioni, si comporterebbe come avviene nella Belgrado congedata dal mondo. Ed è qui che Paskaljević, passando con coerente unità d’insieme attraverso i toni della disperazione e della derisione, dell’umorismo nero e del realismo, punta la sua speranza: l’uomo c’è ancora, nonostante tutto.
«È in questa umanità – scriveva il regista – che ripongo le mie speranze», ed è da qui che forse si può ripartire, soprattutto oggi.
di Giuseppe Ghigi