La Storia, il Leone, la Memoria

Venezia 75 ha fatto emergere una necessità di storia condivisa che è propria dei momenti difficili delle civiltà, tra negazione ed esaltazione del passato.

Cinema è Storia #4: La Storia, il Leone, la Memoria

Si dice che la Storia conservi la memoria, anzi la crei. In questo il cinema, se da una parte ha avuto sempre una funzione metastorica, e metafilmica, dall’altra ha esercitato altrettante volte la funzione di fare storiografia, secondo una riflessione che oscilla attorno all’uso pubblico della storia. Un uso, tuttavia, non sempre strumentale. Venezia 75 ha fatto emergere una necessità di storia condivisa che è propria dei momenti difficili delle civiltà, in bilico tra negazione ed esaltazione del passato. Un bisogno che si allarga a una storia più recente, dove la cronaca è ancora troppo viva per aver bisogno della memoria. Eppure esistono fatti, episodi di cronaca, che chiedono al cinema di rafforzare una memoria, di fare chiarezza, di tenere desta un’attenzione. A questa vocazione militante il cinema ha sempre risposto, indipendentemente si trattasse di cronaca o di storia. E a questa ultima accezione risponde senz’altro Sulla mia pelle che Alessio Cremonini dedica alla vicenda Cucchi, con un successo che, a ben sperare, andrà oltre il box office. O i due film sulle vicende siriane, Still Recording di Saaed Al Batal e Ghiath Ayoub, che ha vinto la Sic e The Day I Lost My Shadow di Soudade Kaadan, che ha vinto il Leone del futuro.

Più in generale, anche i film storici propriamente detti di Venezia 75 hanno mostrato un’attenzione verso l’attualità del contemporaneo che ne conferma necessità e urgenza. È il caso di Peterloo di Mike Leigh, che ricorda un episodio poco noto della storia sociale e politica dell’Inghilterra della Restaurazione, avvenuto a St. Peter’s Field, una delle pagine più tragiche della storia delle lotte popolari, con la cavalleria britannica a caricare una folla inerme, 60mila persone con donne e bambini giunte a Manchester per chiedere riforme e meno tasse, lasciando sul campo una quindicina di morti e 400 feriti. Nel 2019 saranno duecento anni da allora: l’anniversario ha spinto Mike Leigh a costruire un film che parla di ieri rivolto all’oggi, esempio di come uno Stato possa calpestare i diritti dei cittadini, ignorandone le richieste. «Ci sono moltissimi temi che riguardano l’attualità, dalla lotta delle periferie contro il potere centrale, la rilanciata centralità dell’uomo comune o la sospensione dei diritti fondamentali come l’Habeas Corpus: è importante che il film vada compreso come un modo di pensare il XXI secolo» ha ricordato Leigh. E al di là della mezz’ora finale – tragica e spettacolare – il film si svolge invece basandosi sui volti e i discorsi dei personaggi, popolari e pubblici. Questa oralità, se da un lato è a tratti didascalica, ha tuttavia il pregio di chiarire i punti di un dibattito politico e di una condizione sociale trascurata dai manuali di storia, con una modalità già tratteggiata da Il giovane Karl Marx di Raoul Peck. Il legame con le guerre napoleoniche e il massacro è invece ribadito attraverso il rientro da Waterloo di un trombettiere inglese e dall’incarico di comandante dell’esercito del Nord dato al vice di Wellington, il generale John Byng. Anche per questo il massacro, oltre che per la drammaticità sanguinaria dell’evento, venne ribattezzato Peterloo.

Ha i toni invece del bildungsroman l’altro film storico del concorso, Opera senza autore di Florian Henckel von Donnersmarck, che segue l’evoluzione esistenziale e artistica del giovane Kurt, da quando, bambino, assiste al ricovero della giovane zia, una ragazza fragile ingiustamente soppressa per schizofrenia con la complicità di un ginecologo di regime che anni dopo rincontrerà, in veste di mefistofelico suocero, simbolo del passato. Ma già allora, alla mano sugli occhi che gli adulti gli mettono per non vedere il Male e il dolore, Kurt reagisce aprendo le dita e cercando di guardare, per capire. La ricerca dell’identità del ragazzo passa attraverso l’arte – prima quella realista nella DDR, poi quella delle avanguardie all’ovest – una emancipazione che marca anche l’evoluzione di un popolo che trasforma in arte le sue ferite. Meno epico di Edgar Reitz – Heimat reinventava i luoghi e le persone attraverso le generazioni – Opera senza autore filtra 50 anni di Germania attraverso lo sguardo del protagonista. Dopo un inizio mélo, infatti, Henckel mostra ancora una volta come le vite degli altri possano essere emozionanti anche per noi. L’arte è vista come modello di riscatto individuale e sociale: il protagonista, come la Germania di oggi, si confronta col proprio passato in modo critico, ma senza più il complesso di colpa delle generazioni precedenti. Quello stesso senso di colpa che anima il Tramonto dell’Occidente di László Nemes, alla vigilia della Grande Guerra. Nella storia personale di Iris Leiter, che nel 1913 raggiunge Budapest per cercare un posto da modista nella fabbrica di cappelli che era stata della sua famiglia prima di un misterioso tracollo, Nemes ravvede lo stesso dramma di una civiltà a un bivio. Con una narrazione non convenzionale, spesso difficile da seguire, Tramonto si pone delle domande sulla società contemporanea, dove il crollo dell’impero austro-ungarico richiama quello dell’Europa odierna, «Un secolo fa, l’Europa si suicidò. Questo suicidio resta un mistero ancora oggi. Una civiltà al suo apogeo ha prodotto il veleno che l’ha distrutta», ha ricordato il regista ungherese con evidente riferimenti alle tensioni dell’odierna Europa, “colosso dai piedi d’argilla” al pari dell’impero austro-ungarico di allora. Un’epoca comunque ricca di suggestioni, come confermano i proto-hyppies di Mario Martone, in Capri-Revolution, tesi a superare il presente con l’arte, dove ancora un’adolescente, qui una ragazza di umili origini, si confronta con diverse identità, prima di scegliere la sua, che prescinde da tutte le altre, giovane ribelle anche lei come il Leopardi favoloso e i rivoluzionari di Noi credevamo. Ma a differenza di quella di Iris Leiter, la ribellione di Marianna genera amore, non odio, speranze, non rotture. Un amore che tuttavia non sarà colto, obbligandola ad andarsene mentre l’Italia va in guerra.

Tra tante riletture interessanti ve n’è pur stata qualcuna di più convenzionale e non a caso ha riguardato la rivoluzione francese, uno dei momenti del passato più visti sullo schermo. Un peuple et son roi di Pierre Schoeller parla dei tre anni topici, dalla presa della Bastiglia alla morte di Luigi XVI, vedendoli attraverso gli occhi e le vicende del proletariato che dai sobborghi giunge nella capitale per partecipare all’emozione di quelle settimane. In fondo era già l’idea di Jean Renoir nella Marsigliese (1938). Ma Un peuple et son roi non è debole perché poco originale: risulta poco avvincente proprio perché il suo sguardo su eventi o situazioni già note risulta prevedibile.


di Michele Gottardi
Condividi