La politica tra storia e geografia
Partendo da Gli amori di una bionda di Miloš Forman ci si può porre uno dei problemi più comuni e più frequenti che s’incontrano analizzando i rapporti tra cinema e storia, e che riguarda l’ambientazione geografica e temporale dei film.

Uno dei problemi più comuni e più frequenti che s’incontrano analizzando i rapporti tra cinema e storia riguarda l’ambientazione geografica e temporale dei film. Ovviamente si tende ad escludere da queste problematiche quelle pellicole la cui ambientazione è scontata in partenza, visto che possono essere collocate in una serialità abbastanza nota che vale, in generale, per le cinematografie dominanti, dagli Stati Uniti a due o tre paesi europei: Francia, Spagna, e, in parte, Gran Bretagna, e ovviamente l’Italia. Ma la collocazione geografica non è sufficiente e talvolta è anche problematica. Su queste stesse pagine, qualche mese fa, ho scritto che un poco noto film statunitense dei primi anni Sessanta, Missione in Oriente , diretto da George Englund, era ambientato in un paese del sud est asiatico non specificato e non riconoscibile ma che, oggi, sessant’anni dopo, può essere “allegoricamente” identificato come il Vietnam e dunque trascinare dentro una geografia quasi enigmatica la Storia con la S maiuscola. Al contrario, Lo spirito dell’alveare (1973) di Victor Erice – anche questo titolo già analizzato – pur essendo riconoscibile, anche se non facilmente, come ambientato nella Spagna degli anni immediatamente successivi alla fine della Guerra Civile (1936-1939), accumula una quantità di simbolizzazioni e di allegorie culturali e politiche non facilmente leggibili dal comune spettatore, una figura quest’ultima nel cui novero si contano comunque diverse categorie di appassionati di cinema e di storia in grado di sfidare la regia allusiva di Erice. Questa difficoltà a capire i contesti storico-sociologici è particolarmente riscontrabile nell’est Europa post bellica, ovvero dell’impero sovietico, con le due eccezioni della Romania e della Jugoslavia, che pure facevano parte del mondo comunista occidentale. Sono soprattutto due paesi, la Polonia e la Cecoslovacchia, che, a partire dal dopoguerra e soprattutto negli anni negli anni Sessanta, hanno prodotto film d’autore (giusto per citare qualche nome, Polanski, Wajda, Skolimowski, Forman) che, al di là della loro riuscita formale, ponevano problemi di identificazione storico-politica. Giusto per fare degli esempi, questa identificazione era già abbastanza problematica in Ingenui, perversi (1960) di Wajda, che raccontava le traversie sentimentali e esistenziali di una generazione che poteva dirsi quasi borghese. Oltretutto il film fu scritto proprio da Skolimowski, che qualche anno dopo esordì come regista e nel 1967 firmò il suo film più celebre, Mani in alto, racconto quasi esistenziale di una generazione privilegiata dal mestiere (medici) e piena di sensi di colpa. Uno di loro, purtroppo, incappa in una “gaffe” involontaria, stampando un manifesto nel quale Stalin è mostrato con quattro occhi. Il film, come si è già scritto, fu ritirato dalla distribuzione e costò l’esilio al regista. Per quanto riguarda la Cecoslovacchia, infine, basterà un unico nome, Milos Forman, anch’esso esordiente negli anni Sessanta e successivamente, dopo l’invasione sovietica del suo paese, esule negli Stati Uniti dove girò molti film di successo che risentivano dell’anarchismo libertario del periodo europeo.
Chi scrive, a metà degli anni Novanta – quando il comunismo dell’est europeo era già crollato assieme all’ex Unione Sovietica – approfittando del suo ruolo di docente in un corso di aggiornamento per insegnanti di un liceo cittadino (il tema era appunto dedicato al cinema europeo dalla fine della guerra agli anni Sessanta), ha provocatoriamente proposto, alla fine del corso, proprio un film di Forman, Gli amori di una bionda, girato nel 1965, una data storicamente importante, visto che in quel paese s’intravvedevano i primi segni del dissenso che portarono alla Primavera di Praga e, purtroppo, nell’agosto del 1968, all’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche che cancellarono le riforme democratiche del premier Dubcek. Ovviamente, ho proiettato la videocassetta dopo averla duplicata senza i titoli di testa e di coda, in maniera che non fosse immediatamente percepibile l’origine e l’ambientazione geografica del film. Gli amori di una bionda è il secondo lungometraggio di Forman: una commedia che racconta le disavventure di una ragazza, operaia in un distretto industriale, lontano dalla capitale, dove ci si annoia a morte visto che la fabbrica è una sorta di isola. L’unica occasione di svago è organizzata dalla direzione dell’azienda, che mobilita i militari della zona, non certo giovani, perché partecipino alle serate danzanti del sabato. A parte la festa nella quale si vedono delle giovani operaie che “non” si divertono affatto con i militari di mezz’età che dovrebbero attenuare la loro noia, il contraltare di quest’isola di solitudini è un mondo di giovani che vanno a ballare (e la musica era già il rock e il twist importati dall’Inghilterra e dagli Usa), di contrasti generazionali, crisi esistenziali e passioni romantiche non molto diverse da quelle visibili al di qua della Cortina di ferro. Ma una delle ragazze, alla fine della noiosissima serata, passa la notte con il pianista del complesso musicale e dopo qualche giorno, scappa dal paese-azienda per rintracciare il suo “amoroso” a Praga, finendo per passare la notte a letto con la madre di lui, moralista all’estremo, mentre il presunto fidanzato, dongiovanni incallito che mai avrebbe pensato ad una simile sorpresa, è costretto a dormire con il padre. In Gli amori di una bionda, dunque, viene in qualche modo certificata un’idea moralistica della famiglia di nuovo sovrapponibile a quella imperante in occidente e giustamente contestata dal mondo giovanile. Non a caso l’arrivo a Praga della ragazza in cerca del suo amore di qualche settimana prima è un pezzo che potrebbe appartenere ad una commedia italiana degli stessi anni, tipo La parmigiana (1963) o Io la conoscevo bene (1965), entrambi di Pietrangeli. E, ancora e non per caso, il film di Forman fu distribuito con un certo successo anche in Italia, tanto che il produttore Morris Ergas propose al regista di girare la pellicola successiva proprio nel nostro paese. Tornando al corso di aggiornamento, la discussione che seguì la proiezione del film finì per diventare un test straordinario sul grado di informazione che si aveva, allora, sulle scomparse, e non da molti anni, società comuniste.
La maggior parte degli insegnanti – età media, quarant’anni, in prevalenza donne – si chiedevano, sentendosi quasi presi in giro, se davvero il film di Forman rappresentasse uno spaccato di quelle società e dubitavano delle possibilità di proporlo (era quello lo scopo del seminario di formazione) a degli studenti che nulla sapevano della storia europea degli ultimi cinquant’anni. Altri pensavano che quella pellicola umoristica ma triste, alla maniera del primo Fellini (Pietrangeli non fu mai citato visto che non era un regista molto conosciuto) proveniente da un paese comunista, potesse far deviare un’eventuale lezione in direzione di una temutissima rivalutazione del socialismo reale, capace di produrre, nonostante tutto, del buon cinema. Altri ancora dubitavano della credibilità di un’ambientazione che, come per i film polacchi degli stessi anni, già citati, sembrava mettere sullo stesso piano la libertà dell’Europa occidentale e quella orientale, dominata dal comunismo, cioè dalla mancanza di libertà. Invece, i pochi studenti che avevano accettato di partecipare al seminario lo trovarono credibile e si chiesero – con qualche ragione, secondo chi scrive – che cosa ci fosse di strano in una storia d’amore raccontata con ironia e soprattutto nell’atteggiamento dei genitori che, come accadeva in tutte le famiglie, si preoccupavano che i figli non si mettessero nei guai con qualche ragazza, o viceversa. Insomma, come tante altre pellicole cecoslovacche degli stessi anni, Gli amori di una bionda raccontava semplicemente il disagio giovanile e gli umori romantici o al contrario, puramente erotici, in società che, nella propaganda ufficiale del regime – si ritenevano perfette ed esenti da problematiche emotive tipiche del mondo capitalista. Prescindendo dall’ultima considerazione, già politica, tutti questi spunti, facilmente, venivano sottolineati dagli studenti ospiti del corso, probabilmente totalmente disinformati sul tipo di regime politico che governava la Cecoslovacchia di quegli anni. Si può aggiungere, doverosamente, che il dato storico-politico vero e proprio non fu neanche preso in considerazione né dagli studenti – e questo è perdonabile – né dagli insegnanti, nessuno dei quali citò la curiosa ambientazione extra metropolitana del film, assolutamente estranea all’occidente capitalistico: la fabbrica/paese abitata più o meno solo da giovani operaie il cui unico svago, quasi da recluse, è un sabato danzante con soldati e ufficiali avanti con gli anni e poco attraenti.
Dunque, il senso profondo del film sta proprio in questa contrapposizione tra una sorta di blanda reclusione dovuta alla centralizzazione economica e la voglia di libertà delle ragazze “recluse”. Questa contraddizione – già politica e certo non gradita alle autorità – è decisiva per definire politicamente il senso del film. Perché è pur vero che gli anni Sessanta cecoslovacchi sono stati segnati da una progressiva coscienza culturale e politica di tipo borghese – e il termine, oggi, va inteso in senso positivo, come un segno di libertà – molto legata alle società occidentali e al senso di liberazione individuale che sovrastava la contestazione politica vera e propria. Non a caso, è in quegli stessi anni che si afferma lo scrittore Milan Kundera (anch’egli esule dopo l’invasione sovietica), i cui primi romanzi e racconti che precedono L’insostenibile leggerezza dell’essere (1982), possono essere “letti” in parallelo con i primi film di Forman. Infine, è a partire dal primo lungometraggio del regista, L’asso di picche (1963), e poi dal film di Vera Chilytova, Le margheritine – un’opera straordinaria che citava l’underground americano – che si comincia ad usare il termine Nova Vlna (nuova ondata, traduzione della più nota nouvelle vague) per caratterizzare le pellicole girate dalle nuove generazioni. Va infine sottolineato, per capire il clima politico e culturale di quegli anni, che proprio Forman, dopo aver girato L’asso di picche (1963) – altro film giovanilistico, anche questo vicino al primo Fellini – fu fortemente criticato persino dalle riviste sovietiche, che lo accusarono di disprezzare la gente comune, ovvero la classe operaia, ritraendola in caricatura.
Vale la pena di riportare il senso principale di questa critica in maniera testuale: «Il suo odio patologico per la gente semplice non è misantropia (…). L’obiettivo della sua cinepresa è diretto verso la classe operaia cecoslovacca (…) I suoi film sono un’eloquente illustrazione del programma controrivoluzionario delle duemila parole». Va precisato che il “Manifesto delle duemila parole” fu il primo segno concreto dell’opposizione al regime che portò alla presidenza di Dubcek. L’attacco della rivista sovietica è ancora la migliore dimostrazione del legame implicito tra le nuove ondate politico sociali e il cinema di quegli anni, anche se ovviamente la retorica propagandistica dell’articolo impedisce al suo autore di vedere la grande sensibilità che si nasconde dietro la satira corrosiva della società comunista. Ma un altro paradosso che ci aiuta a decifrare ciò che non poteva essere interamente visibile in Gli amori di una bionda, riguarda un film italiano. Infatti, quando, nel 1967, i fratelli Taviani presentarono proprio a Praga, il loro film a episodi I sovversivi, girato durante i funerali di Togliatti (ennesimo episodio di una estinzione dei padri e di una incapacità dei figli a cavarsela da soli), alcuni critici cecoslovacchi osservarono che quella pellicola avrebbe potuto essere girata in un paese socialista, ovvero raccontare ciò che accadeva nell’est europeo prima della normalizzazione sovietica dell’agosto del 1968. Dunque, mostrare la borghesia – o la persistente classe media teoricamente destinata all’estinzione dal comunismo realizzato – come condizione non solo sociale ma anche morale, culturale, di costume, indicava che il comune sentire dei giovani dell’est europeo comunista, il conformismo delle famiglie, la voglia di fuga e di amori liberi, non presentava alcuna differenza con il mondo capitalista occidentale.
di Gianni Olla