Il Vietnam nascosto

Missione in Oriente, un film del 1963 voluto da Marlon Brando, anticipa un filone (che mai prenderà corpo) dedicato alla futura guerra del Vietnam. Ma già nel 1958 Un americano tranquillo di Joseph L. Mankiewicz mostrava le prime infiltrazioni statunitensi nel Paese.

È quasi obbligatorio riaffermare o sottolineare che fino al 1975, anno in cui le immagini televisive mostrarono al mondo la frettolosa e caotica evacuazione dell’ambasciata statunitense di Saigon, conquistata dall’esercito nordvietnamita, il cinema americano non affrontò il tema della guerra del Vietnam, se non con il celebre e contestatissimo I berretti verdi (1968) di e con John Wayne, che ovviamente sosteneva le “buone ragioni” della guerra. Il Vietnam rimarrà dunque, fin verso la fine degli anni Settanta, un argomento solo evocato attraverso un sottogenere che, in un’altra sede, ho definito il “reducismo”. Ovvero le disavventure di coloro che tornavano dalla guerra, più o meno menomati nel fisico e nella mente. Accanto a questa forma drammaturgica – non nuova per verità, ma piuttosto confermativa di un modello che risaliva agli anni Trenta con i reduci della Grande guerra e che riprese fiato nel 1945 – ecco poi un altro personaggio: colui che non vuole partire per la guerra. Tra i titoli più significativi di questi due filoni ci sono Fragole e sangue (1970) di Stuart Hagmann, il dittico di De Palma, girato tra il 1968 e il 1970 (Ciao America e Hi, Mom), Alice’s Restaurant (1969) di Arlo Guthrie ma soprattutto il bellissimo The Edge (1967) di Robert Kramer, che però appartiene pienamente all’underground e non ebbe una distribuzione commerciale. Vanno però citati obbligatoriamente anche Il piccione d’argilla (1970) di Tom Stern, L’impossibilità di essere normale di Richard Rush (1970), Slaughter – L’uomo mitra (1972) di Jack Starrett, Tracks – lunghi binari della follia di Henry Jaglom (1975) e soprattutto Targets (Bersagli) di Peter Bogdanovich, prodotto da Roger Corman nel 1968: un’opera a meta strada tra genere e autorialità che sfiora intelligentemente il meta racconto. C’è infatti uno schermo doppio nel film: nel primo gli spettatori, cioè noi, vediamo il reduce che spara con il suo fucile di precisione agli ignari cittadini che non hanno alcuna colpa se non quella di transitare “a portata” dell’arma.

E poi c’e lo schermo diegetico di un drive-in, in cui appare la sua ombra minacciosa che si sovrappone alla presenza reale e paradossalmente pacifica di Boris Karloff, interprete della “creatura” del dottor Frankenstein nelle prime pellicole sonore hollywoodiane. Sara lui, in veste di ospite d’onore di una rassegna, a disarmarlo e a cercare di spiegare, soprattutto agli spettatori, che la violenza schermica ha una funzione catartica e non è mai un incoraggiamento al delitto. Insomma, il reduce sarà, per almeno un decennio, un personaggio inquietante, un marginale che ha assorbito interamente la carica violenta della guerra e non vede l’ora di ributtarla sulla società. In altri titoli più celebri dello stesso decennio come Taxi Driver di Martin Scorsese o Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet, il tema della follia dei reduci si scarica in un’attualità disgregata che travalica l’appartenenza ai generi. Nel film di Lumet, infatti, oltre alla presenza dell’ex militare John Cazale tra gli scalcinati rapinatori che si barricano nella banca, c’è, verso la meta della pellicola, una svolta importante: una sorta di grido di rivolta verso la polizia e l’autorità giudiziaria che coinvolge tutti i cittadini che “fanno massa” di fronte alla banca per partecipare, tramite la tv, dell’evento. Al Pacino, infatti, invita ad urlare “Attica! Attica!”, riferendosi ovviamente al carcere di Attica, nello stato di New York, teatro, nel 1971, di una sanguinosa rivolta da parte degli afroamericani, guidati da esponenti delle Black Panters – spesso condannati a lunghe pene detentive per essersi rifiutati di partire per il Vietnam – che si concluse con una vera e propria strage dei carcerati da parte delle truppe federali intervenute a sedare la sommossa. Il grido di Al Pacino si trasforma così in un gesto politico a tutto campo: il malessere americano degli anni Settanta mette insieme la povertà, il Vietnam, il problema razziale. E ancora Martin Scorsese, in Mean Streets (1973), aveva inserito un “cammeo” nel quale un reduce, festeggiato dai suoi amici, improvvisamente, esplode in una crisi isterica e viene portato via da un ambulanza. Ma soprattutto uno dei suoi titoli più celebri, Taxi Driver (1976), mostrava, non solo in maniera allegorica, il disfacimento materiale e sociale di New York, capitale reale e vetrina americana, percorsa dal taxista notturno come se fosse ancora all’interno della giungla vietnamita. E non a caso, la sua metamorfosi finale – che lo conduce dapprima all’attentato politico e poi alla strage nel bordello – è dominata dalla presenza dei segni di appartenenza ai corpi scelti dei marines che combattevano nel Vietnam.

Ma il film più bello e più interessante sul “reducismo” è The Visitors di Elia Kazan, girato assieme al figlio Chris, che scrisse la sceneggiatura nel 1972. Racconta la visita inaspettata di due ex combattenti in Vietnam ad un loro commilitone. Il suocero di costui li accoglie quasi come degli eroi, mentre l’ex militare sembra disturbato da quelle presenze che gli ricordano una serie di episodi terribili accaduti durante la guerra. Progressivamente, il kammerspiel si trasforma in una sorta di confessione pubblica delle atrocità – tra le quali lo stupro e l’omicidio di una ragazza vietnamita – commesse dai “visitatori” che sono venuti in quella casa soprattutto per minacciare il loro compagno, definito dal suocero come un “finocchio”, che non volle essere complice di quella violenza. Di fatto The Visitors è il film chiave per capire la patologia della violenza, originaria e/o derivante dal trauma bellico, che s’interseca continuamente con l’immaginario tradizionale hollywoodiano.

Se questo è il contesto, ovviamente sintetico al massimo, a partire dall’immediato dopoguerra ci sono poi delle varianti o delle eccezioni, direttamente legate alla Guerra Fredda, ambientate in Europa, che non hanno alcun bisogno di simbolizzazioni. C’è però un film che supera i confini europei per approdare al sud est asiatico. È un titolo poco conosciuto, nonostante la presenza di Marlon Brando: Missione in Oriente, in originale The Ugly American, ovvero Il brutto americano. L’anno di uscita della pellicola, che ebbe anche una nomination ai Golden Globe, è il 1963. Diretto da George Englund, è ispirato ad un romanzo di William Lederer e Eugene Burdick, poi sceneggiatori del film. Fu fortemente voluto da Brando, che, anche prima di lavorare con Pontecorvo in Queimada (1970), era intenzionato ad affrontare sia il problema della Guerra fredda sia quello del Terzo Mondo. Va ricordato che non molti anni prima, nel 1955, ebbe luogo la celebre conferenza di Bandung, in Indonesia, a cui parteciparono i cosiddetti paesi “non allineati”, cioè non schierati né con gli Usa né con l’URSS. Il termine Terzo Mondo nacque appunto in quell’occasione e non ebbe una caratterizzazione ideologica ma piuttosto culturale, visto che tra i “non allineati” c’erano infatti paesi comunisti come la Jugoslavia, Cuba e la Cina ma anche l’India, il Pakistan, la Birmania e, dopo l’indipendenza, l’Algeria. Questo potrebbe essere il quadro di riferimento del film di cui si può sintetizzare il plot: Carter MacWhite (Marlon Brando), diplomatico di carriera, si insedia al consolato americano di Sarkhen, piccolo Stato del sud-est asiatico travagliato da una forte opposizione antigovernativa che unisce comunisti e nazionalisti. La sua nomina è stata abbastanza contestata: lo si accusa di essere amico di un leader nazionalista, Deong (interpretato dal giapponese Eiji Okada, protagonista di Hiroshima mon amour di Resnais), conosciuto durante la resistenza ai giapponesi nel corso della seconda guerra mondiale ed oggi sospettato di simpatie comuniste. Ma il nuovo ambasciatore prosegue per la sua strada, salvo scoprire che i comunisti stanno davvero cercando un’alleanza con Deong che porti ad un nuovo governo di cui avranno il controllo. Seguono altri complessi sviluppi narrativi: Deong viene ucciso quando si accorge di essere una semplice pedina in mano ai comunisti, i quali hanno iniziato una sorta di guerriglia generalizzata. A Mac White non resta che chiedere l’intervento della Sesta Flotta e dei marines per impedire ai comunisti di prendere il potere. Ed ora il mistero dell’ambientazione, se così possiamo chiamarlo. Il Sarken, ovviamente non esiste ma poiché il vocabolo, secondo la critica di quegli anni, è tailandese, c’è stato un tentativo di indicare appunto la Thailandia – dove furono girati molti esterni del film – come vera localizzazione. Ma l’unica volta che nel film compare una carta geografica, non è distinguibile alcun paese reale. E d’altronde la Thailandia, seppure anch’essa fedele all’alleato statunitense al punto da concedere delle basi aeree durante i bombardamenti del Vietnam del Nord, a partire dagli anni Sessanta ebbe una continua guerriglia comunista, stimolata dai giovani studenti universitari che mai, però, riuscirono a minacciare il potere dei militari al governo.

Un’altra ipotesi geografica è l’Indonesia, ma i tempi storici non coincidono. Il colpo di stato del generale Suharto che rovesciò quello di Sukarno, accusato di essere filo comunista, ebbe luogo tra il 1967 e il 1968 e portò a migliaia di uccisioni di militanti comunisti o presunti tali. Su questi fatti esistono anche diversi film, uno dei quali, Un anno vissuto pericolosamente (1982), diretto da Peter Weir e interpretato da Mel Gibson e Sigourney Weaver, nei panni di due giornalisti che finiscono per occuparsi appunto della guerra civile che porterà alla dittatura di Suharto e alla morte del suo rivale. A questo titolo, ormai quasi dimenticato ma non certo poco interessante, si sono aggiunti due recenti documentari: L’atto di uccidere (2012) e The Look of Silence (2014) entrambi diretti dal regista statunitense ma residente in Danimarca Joshua Oppenheimer. Nel primo occupano interamente la scena i racconti degli assassini che, ancora oggi, ormai anziani, non hanno alcun pentimento o semplicemente un ricordo “turbativo” di quelli eccidi al punto da rimetterli in scena per il regista; il secondo è basato sulle testimonianze di chi fu vittima degli eccidi dei propri familiari. .

Tornando a Missione in Oriente e ipotizzando che il paese misterioso sia il Vietnam, nel 1962/63, anni di produzione e di distribuzione del film, il presidente statunitense era ancora, fino al suo assassinio del 22 novembre 1963, John Kennedy, il quale ereditò da Eisenhower una sorta di impegno a sostenere un Vietnam non comunista – ovvero non unificato dal regime di Ho Ci Minh – attraverso l’invio di consiglieri militari e consistenti finanziamenti per sostenere dei governi che, da Saigon, di fatto capitale del sud Vietnam, potessero contrastare la forza militare che, nel 1954, a Diem Bien Phu aveva sconfitto l’esercito francese decretando la fine di quell’impero coloniale. Sarà solo con la presidenza Johnson, succeduto automaticamente a Kennedy e poi eletto presidente nel 1964, che ebbe inizio il massiccio trasferimento di truppe nel sud Vietnam e l’escalation dei bombardamenti nel Nord e soprattutto a Hanoi, la capitale. Nel film per la tv, Path to War – L’altro Vietnam (2002) diretto dal grande vecchio John Frankenheimer con la solita autorevolezza del suo cinema civile, si racconta appunto la continua pressione dei militari su Johnson – che certo non voleva passare alla storia come il primo presidente americano che aveva perso una guerra – per aumentare la potenza di fuoco di navi e aerei e il numero di militari impegnati nelle giungle vietnamite. Tornando però alla pellicola di cui ci stiamo occupando, la tesi di un riferimento ai primi tentativi di occuparsi del Vietnam senza essere costretti – come accadde in Corea, nel 1948, su mandato Onu – a far intervenire massicciamente truppe, navi e aerei, si attaglia perfettamente al plot del film di Englund. Da un lato, infatti, le prime rivolte conto la presenza statunitense sono guidate da una massiccia partecipazione al boicottaggio dei lavori di costruzione di una grande strada che salirà verso il nord e che dunque, secondo i nazionalisti, servirà per far avanzare le truppe americane nella giungla; dall’altro, a metà film si cita espressamente una sorta di progressiva penetrazione delle truppe comuniste del nord (e senza mai citare l’esistenza di un vero stato) verso il meridione. È a questo punto che l’ambasciatore chiede l’intervento della Sesta Flotta, anticipando o forse profetizzando il futuro impegno statunitense nel Vietnam/Sarken. Se finora la nostra interpretazione del film è al limite della “fantastoria” (comunque in buona compagnia, visto che, negli stessi anni videro la luce diverse pellicole statunitensi “fantastoriche” come L’ultima spiaggia (1959), Sette giorni a maggio (1964), Il dottor Stranamore (1964), A prova d’errore(1964), Tempesta su Washington (1962), Va e uccidi (1962)), un altro film non fantastorico ci aiuta a ipotizzare una vera e propria allegoria che ci riporta alla storia del Vietnam post bellico.

Si tratta diUn americano tranquillo di Mankiewicz, che fu girato nel 1958 e soprattutto tratto, con molta fedeltà – tranne nel finale – da uno degli ultimi romanzi di Graham Greene. Scritto nel 1955, era ispirato all’attività dello scrittore come agente dei servizi segreti britannici a Saigon dal 1951 al 1954. Il suo ruolo ufficiale era però quello di corrispondente per la stampa inglese durante la guerra coloniale francese, che, come si è già scritto, si concluse nel 1954. È sempre Greene che ricorda che l’ispirazione per il romanzo gli venne dopo aver conosciuto, prima della resa dei francesi, una sorta di agente segreto americano che gli parlò della possibilità di organizzare una “terza forza” in Vietnam, visto che i francesi sarebbero certamente stati sconfitti e che non si poteva lasciare il paese in mano ai comunisti.Su questa traccia nacque il romanzo e poi il film, le cui trame si concentrano, in apparenza, su un triangolo amoroso tra il corrispondente di guerra britannico Fowler (Michael Redgrave), una ragazza vietnamita, sua amante (è l’italiana Georgia Moll), e l’“americano tranquillo” (l’attore soldato Audie Murphy), che viene poi ucciso dai comunisti con la complicità proprio di Fowler che, solo alla fine, scoprirà di essere stato ingannato. Il pentimento finale fu appunto un’aggiunta obbligatoria: il maccartismo, benché in fase terminale, era comunque ancora attivo e avrebbe potuto bloccare il film. Molti anni dopo, nel 2002, fu distribuita, con un certo successo, una nuova versione del romanzo, diretta da Philip Noyce con il medesimo titolo e con l’interpretazione prestigiosa di Michael Caine, nel ruolo di Fowler. Questi, per semplice gelosia e senza alcun pentimento per aver aiutato – forse! – i comunisti fa uccidere il rivale americano, ovvero l’agente della CIA che sta organizzando le forze militari del sud che si devono opporre ai comunisti.

Nel 2002, ovviamente, il Vietnam era ormai un ricordo lontano ma il terribile attentato alle torri gemelle dell’anno prima non solo aveva persuaso i produttori a rinviare di un anno l’uscita del film nelle sale ma aveva risvegliato, nell’opinione pubblica e nel governo USA, i venti di guerra. Sicché fu poco gradita la lunga sequenza bellica in cui Fowler constata di persona, rischiando la vita per un servizio giornalistico, che la “terza forza” esiste, anche prima della sconfitta francese ed è attivissima con attentati e altre azioni di guerriglia che gli consentiranno di prendere il potere a Saigon con il beneplacito e l’assistenza americana. Quando il film fu programmato in Italia, sul quotidiano “La Repubblica” apparve un prezioso articolo di Bernardo Valli, inviato storico nei numerosi conflitti post bellici, che ricordava una conversazione avuta con lo scrittore inglese negli anni Settanta, quando gli americani erano ormai lontani dal Vietnam. Greene, dopo averlo invitato a non prendere troppo sul serio il romanzo, ribadì però la sua convinzione che gli americani fossero politicamente dei dilettanti e che la loro cieca irruenza palingenetica era stata la causa principale del disastro vietnamita. Insomma, anche questa dichiarazione, soprattutto perché formulata da un ex agente del servizio segreto britannico, ci racconta, ad un tempo, della fine del colonialismo storico franco-inglese in ogni parte del mondo e della sua sostituzione – non sempre andata a buon fine, come ci ricordano anche i film sul Vietnam – con un nuovo e diverso dominio imperiale.


di Gianni Olla
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