“Il grido dell’aquila”, la prima fiction della Marcia su Roma

Paolo Speranza riflette sulle immagini di Il grido dell'aquila, il film di Mario Volpe del 1923 considerato la prima fiction della Marcia su Roma.

Fu tutt’altro che un capolavoro ma è la prima fiction sulla Marcia su Roma e resta un documento cinematografico importante su quell’evento e, più in generale, sulle parole d’ordine, gli obiettivi politici, i (dis)valori del nascente regime mussoliniano.

Tutto questo, unito al suggestivo titolo Il grido dell’aquila, non bastò ad assicurare l’auspicato successo di pubblico al film diretto da Mario Volpe, presentato nelle sale di tutt’Italia il 29 ottobre 1923, nel primo anniversario del golpe fascista. Neppure in quella Napoli dove la Marcia aveva preso avvio e dove il regista era nato, figlio di uno dei più noti artisti campani del primo Novecento, il pittore Vincenzo Volpe (originario di Grottaminarda, in provincia di Avellino), che a Napoli in quegli anni era presidente dell’Istituto di Belle Arti.

Di Napoli era anche il protagonista di Il grido dell’aquila, Gustavo Serena, attore e regista molto popolare all’epoca, entrato nella storia del cinema per aver diretto la prima Assunta Spina (1915) dal dramma di Salvatore Di Giacomo.

Nel film Serena interpreta la parte di un giovane tenente, Aldo Giuliani, intriso di patriottismo con venature romantiche alla maniera degli eroi del Risorgimento, innamorato della cugina Stella (l’attrice Bianca Renieri), tra le cui braccia infine morirà, nel tentativo di difendere un povero cieco, Sandro, durante un assalto ad opera di facinorosi agitatori filosovietici.

È sufficiente rievocare questa scena clou per comprendere il sostanziale insuccesso di Il grido dell’aquila, tanto ambizioso quanto velleitario e confuso.

Prodotto dall’Istituto Fascista di Propaganda Nazionale con la Montalbano Film di Firenze, il film di Volpe fu accolto freddamente dalla stampa e snobbato dal pubblico, anche per l’allestimento piuttosto spartano (il cinema italiano dell’epoca si caratterizzava invece per le sontuose scenografie) e la sceneggiatura ridondante di Valentino Soldani, scrittore toscano all’epoca piuttosto quotato e fascista della prima ora, che due anni prima – nel sesto centenario della morte di Dante Alighieri – era stato coinvolto nel flop del kolossal Dante nella vita e nei tempi suoi, diretto da Domenico Gaido.

Prodotto di scarso valore artistico, quasi ignoto anche alla storiografia del cinema (ad eccezione dei saggi di Battista Copello su “Cinema e Cinema” nel 1980 e di Vittorio Martinelli nel 1985 su “Immagine”), il film di Volpe si rivela “di ispirazione schiettamente fascista (un fascismo di stampo nazionalistico, che pretende di derivare dritto dritto da Garibaldi e di risolvere in fretta e furia il disagio sociale delle masse, “avvelenate” dalla propaganda bolscevica), fino ad ora trascurato nella filmografia del cinema di regime”, osserva Orio Caldiron, in un saggio del 1979 su “La Rivista del Cinematografo”.

A distanza di un secolo, tuttavia, pur nella versione incompleta oggi disponibile presso la Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia, Il grido dell’aquila assume un indubbio interesse di carattere storico, forse persino superiore ai documentari che nel 1922 registrarono in presa diretta la Marcia su Roma: A noi!, di Umberto Paradisi, cortometraggio di 22 minuti prodotto dal Sindacato Cinematografico Italiano, uscito con grande riscontro di pubblico il mese successivo alla Marcia su Roma, di recente restaurato dalla Cineteca di Bologna e presentato nell’edizione 2022 di Il Cinema Ritrovato; e Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza, firmato da un pioniere del cinema italiano, il fotoreporter e regista milanese Luca Comerio, e subito apprezzato dal regime fascista e dallo stesso Mussolini, che restò invece piuttosto freddo rispetto al film di Volpe.

(Su questi e altri titoli si rinvia al denso saggio sul rapporto tra il cinema e il Fascismo nascente a firma di Anton Giulio Mancino All’armi siam marcisti, pubblicato su “Cinecritica Web” nel giugno 2022).

Il grido dell’aquila resta in ogni caso il primo lungometraggio di fiction sulla Marcia del 1922 e sull’avvento del Fascismo, e più degli altri ne restituisce il colore dell’epoca, sia pure in maniera farraginosa e con esiti a tratti persino ridicoli: proprio la scena della marcia, ha scritto Martinelli, sembra “una corsa campestre disordinata e, se possibile, anche più zotica e sciatta della marcia originale”.

Il tentativo di creare un filo rosso con il Risorgimento, stabilendo in particolare un nesso ideale tra l’epopea garibaldina e lo squadrismo mussoliniano (dalle camicie rosse alla camicie nere), tuttavia, nonostante il carattere palesemente forzato e strumentale, costituirà un punto nodale della propaganda fascista, come l’incubo del bolscevismo (definito nel film “l’orso straniero”), mentre il linguaggio delle immagini e delle didascalie è impregnato di quel decadentismo retorico e provinciale che connotò in Italia la cultura mainstream prima e durante il Ventennio.

Il grido dell’aquila, attesta infatti Martinelli, “aprì la strada ad una serie piuttosto cospicua di film nazionalistici, risorgimentali, sulla grande guerra”.

Per Volpe, regista di indubbio dinamismo creativo ma dalla biografia professionale decisamente tormentata e in parte ancora oscura, le deludenti esperienze a Roma e a Firenze (dove nel 1926 subì anche un arresto, per la truffa ai danni di alcuni studenti della sua Università Italiana del Cinematografo, una scuola privata di cui era direttore artistico), furono in parte compensate dai successi conseguiti a Napoli, dove fondò una casa di produzione, l’Astra Film, e diresse film apprezzati come una Francesca da Rimini nel 1919 e sei anni dopo una versione cinematografica di Fenesta che lucive, analizzato con nuovi documenti e rigore di analisi da Lucia Di Girolamo in un saggio pubblicato su “Immagine”, la rivista dell’Airsc.

In questo percorso artistico, controverso e accidentato, a Volpe non mancarono estimatori convinti. Ecco, ad esempio, alcuni passi significativi che al regista campano dedica un critico dell’epoca, Giulio Busoni, in un articolo su “La Vita Cinematografica” del 28 agosto 1926: “Mario Volpe iniziò la sua carriera di metteur-en-scéne e di direttore artistico, quando il cinematografo cominciava appena a liberarsi della volgarità e dell’incertezza dei primi tentativi, per balbettare timidamente parole nuove di bellezza e d’arte; ha assistito e partecipato al suo rapido sviluppo, accompagnandolo nell’ascesa portentosa e godendo di ogni suo progresso come di una propria vittoria, ed ha infine salutato la sua affermazione, come il trionfo ed il compimento felice di un ideale accarezzato. Sorta appena la Napoli Films, egli entrò a farvi parte quale aiuto direttore e metteur-en-scéne; ed invero, napoletano e innamorato della sua Patria, nessuno avrebbe saputo meglio di lui cogliere ogni più suggestiva e caratteristica bellezza. Dalla Napoli Films, dove negli ultimi tempi gli era stata affidata la direzione artistica delle commedie — ufficio che egli disimpegnava a meraviglia, soccorso da quel fine senso d’umorismo che gli è naturale — passò all’Augusta Film di Roma, dove allestì L’eroina servaI Martiri di Belfiore; e di qui, scritturato alla Bermudez, per la direzione di Romanzo d’una stiratrice e L’uomo scomparso, passò in seguito all’Apollo, che preparava allora, per l’interpretazione della Terribili-Gonzales, un soggetto di ambiente russo: Petrusca. Ma il Volpe non si fermava all’Apollo, ed eccolo alla Cinedrama di Milano, ad allestire Consul buona lana, il soggetto scimmiesco che ha divertito milioni di spettatori di tutto il mondo; ed in seguito lo vediamo alla Lombarda Film a Roma, per mettere in scena, a fianco del compianto Mario Caserini, L’ombra, di Dario Niccodemi, con Vittoria Lepanto”.

Un profilo lusinghiero che restò sostanzialmente isolato. La fortuna critica di Volpe diventò ancora più impalpabile dopo l’avvento del sonoro e tuttora la storiografia e la critica cinematografica non attribuiscono alcun rilievo alla sua figura, generalmente dimenticata.

È fuor di dubbio, in ogni caso, che Mario Volpe fu regista prolifico, dirigendo alcuni dei più famosi attori dell’epoca, e soprattutto un instancabile sperimentatore: a lui si deve, ad esempio, non solo una riduzione cinematografica dal romanzo Il Piacere di D’Annunzio, a cui “anche i critici più feroci – si legge in un documentato profilo sul sito “sempre in penombra” – furono concordi nel riconoscere ammirevole e squisitamente fedele la messa in scena, ricca e suggestiva”, ma anche, sul finire degli anni Dieci (il film è andato perduto) il primo tentativo di film futurista: Il mistero del castello, prodotto dalla Brunero Film,che registrò anche un record di incassi.

Meno brillante fu il ritorno del regista a Napoli dopo la seconda guerra mondiale, con film strappalacrime come Le due sorelle, Papà ti ricordo, I calunniatori, inseriti in quel filone di melodrammi in salsa canora che attiravano il pubblico più popolare, nel milieu politico-culturale del laurismo, ma raramente uscivano dai confini regionali o attiravano l’attenzione della critica specializzata.

Erano ormai lontani i fasti del periodo egiziano, coincidente con gli anni Trenta e gli inizi del decennio successivo, quando Volpe, per conto di una casa di produzione francese, aveva diretto alcuni titoli importanti per la nascente cinematografia sulle sponde del Nilo – come El-ittiham (1934), Layla bint el Sahara (1937), Leila el badawie (1944), quest’ultimo in coregia con la popolare attrice e sceneggiatrice Bahiga Hafez – soprattutto Ounchoudat al foued (La canzone del cuore), interpretato dalla popolare cantante Nadra, che si rivelò un flop sul piano commerciale (soprattutto in relazione alle aspettative e ai cospicui investimenti della produzione) ma resta nella storia del cinema come il primo film sonoro in Egitto.


di Paolo Speranza
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