Il folclorico e il perturbante
Alla memoria televisiva che ricostruisce l'immaginario ricorrendo alla nostalgia e al folclore bisognerebbe opporre l'autenticità documentaria di un mondo scomparso.

1.
Fino al 2014, sul canale RaiStoria, è andato in onda un programma, Cortoreale, che metteva in onda, con una presentazione dello studioso Marco Bertozzi, documentari italiani, d’autore o meno, girati tra il 1952 e gli anni Ottanta. Se lo ricordiamo è, in qualche modo, per contrapporre quelle sequenze “autentiche” di un mondo scomparso – anche se non necessariamente condivisibili sul piano tematico o estetico – ad una sorta di memoria “ricostruita” tra folclore e nostalgia che spesso domina l’immagine di un’Italia extra metropolitana, anche quando appare in programmi televisivi di buon livello, animati dalla ricerca di autenticità. Ma, anche muovendoci tra l’informazione filologica di Cortoreale e la divulgazione di un bel programma come Geo e Geo, che vanta oltre trent’anni di successi, il vero problema non è semplicemente di ordine informativo ma piuttosto di confronto, neanche facile, tra l’ieri e l’oggi.
Per esemplificare, ricorrendo all’archivio della Cineteca sarda e al lavoro di divulgazione nel quale chi scrive è stato sempre coinvolto, si possono scegliere due brani documentari realizzati nel medesimo paese, Ollolai, in provincia di Nuoro, che, recentemente, ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità per aver messo in vendita delle case – ormai abbandonate a causa del crescente spopolamento – al prezzo simbolico di un euro, a condizione che gli acquirenti le ristrutturino e le abitino in permanenza.
Il primo “documentario-inchiesta” ha come titolo Dentro la Sardegna ed è firmato da Giuseppe Lisi. Andò in onda, sul secondo canale nel febbraio 1969, diviso in tre puntate – oggi visibili nelle Teche Rai – per una durata complessiva di 170 minuti. Il tema generale riguardava le mutazioni di un’isola che, fino al 1971, nonostante i numerosi poli industriali petrolchimici, e una vasta area turistica come la Costa Smeralda, vantava un primato quasi da terzo mondo: l’economia primaria, ovvero agricoltura e allevamento, prevalentemente ovino, avevano ancora il maggior numero di occupati. Una delle puntate, intitolata Una comunità spinta ai margini, è appunto dedicata al paese di Ollolai. In apertura, numerose capre di un gregge “comunitario” che fornisce il latte, quotidianamente e senza spese, ai vecchi e ai bambini, ritrovano la propria casa dopo aver pascolato nelle campagne, guidate da un pastore “volontario”. Per contrasto con questa sequenza poetico-esotica (la capra è quasi un animale sacro in quel contesto) viene quindi intervistato un giovane banditore che attraverso un altoparlante, sistemato nella propria casa – tappezzata di manifesti cinematografici e di poster sui grandi divi della canzone – legge non solo gli avvisi istituzionali, ma anche quelli dei pochi negozi del paese. Inutile sottolineare che il linguaggio dei “bandi” è ormai mutuato dalla prima pubblicità televisiva e “rallegrato” dalle canzoni più conosciute.
Ma, secondo il commentatore, nonostante questi simboli della cultura consumistica, la modernità è solo apparente: le famiglie hanno ancora le loro riserve “alimentari” e raramente comprano beni di consumo. Per dimostrarlo la mdp inquadra degli orti che stanno a valle delle abitazioni in leggera altura e, attraverso il dislivello, ricevono gli apporti di acqua di riciclo, nonché di “letame” umano, entrambi necessari per le coltivazioni più semplici.
Nulla di più vicino alla tradizione contadina di ogni parte del mondo ma anche la semplice constatazione che, in molti paesi, in quegli anni, anche in aree non così isolate, le acque nere scorrevano entro gli stretti canali aperti ai lati delle strade. Proiettato in un paese dell’hinterland cagliaritano – dove è stato massiccio proprio l’inurbamento che ha spopolato molti paesi del centro Sardegna – è stato accolto con interesse e quindi discusso, proprio a partire dal grande dibattito sul cambiamento epocale degli anni Sessanta.
Sennonché un anziano signore, in maniera molto decisa, si alzò e chiese, quasi fosse una prescrizione obbligatoria per gli organizzatori, che dal filmato fosse eliminata la sequenza dell’orto, sostenendo non che non fosse vero, ma piuttosto che fosse offensivo nei confronti degli abitanti di Ollolai, ai quali probabilmente apparteneva. Quindi, dopo la reazione del pubblico che non riusciva a capire la sua animosità, lasciò la sala.
2.
Il secondo episodio, anche questo ambientato a Ollolai, è certo più interessante, perché riguarda una rimozione più profonda. Il film in questione è un lungometraggio a carattere documentario: L’ultimo pugno di terra di Fiorenzo Serra, girato in un arco di tempo che va dal 1959 al 1964 e presentato al Festival dei Popoli del 1966, dove vinse il premio Agis. Restaurato dalla Cineteca di Bologna e rimesso in circolazione in DVD, il film ha poi circolato per intero e, a pezzi, in molte delle realtà filmate dal regista. Anche il brano proiettato in quell’occasione faceva parte di un capitolo dedicato ad un territorio – il nuorese, appunto – dove le tradizioni erano per certi versi immutabili. Una di queste è il matrimonio che, suggerisce il commento, è, ancora, parzialmente, un affare di famiglia che, pur senza obblighi per i fidanzati, è comunque oggetto di trattative, come se facesse parte di una stabilizzazione dell’intero universo comunitario. Le due ampie sequenze successive sono dedicate all’importanza di quel legame e di quella cerimonia, i cui rituali sono o sembrano appunto predeterminati. Nella prima sequenza, i maschi, più o meno coetanei dello sposo, salutano frettolosamente la moglie e quindi abbracciano e baciano in bocca il neo maritato. Nella seconda, sempre filmata a distanza ravvicinata e in piano sequenza, viene “officiata” pubblicamente, dallo stesso sacerdote che ha unito gli sposi, la consegna e la conta dei regali, ormai tutti in denaro e offerti in buste non chiuse: una vera e propria dote offerta dai membri della comunità che, in una sorta di “suspense”, rende pubblica e dunque verifica lo stato economico delle famiglie. Insomma un vero e proprio controllo sociale.
Al termine della proiezione, in una sala nella quale stavano assiepate non meno di duecento persone, di ogni età, c’è stata una vera rivolta transgenerazionale. Non solo sembrava di cattivo gusto la pubblica conta dei denari, ma soprattutto si negava qualsiasi credibilità alla sequenza dello sposo baciato in bocca dagli amici. A nulla sono valsi sia l’intervento di chi scrive che ha ricordato come il film di Serra abbia avuto come “controllori” i maggiori antropologi isolani, sia il tentativo di qualche spettatore anziano che ha mediato, sostenendo che i “cerimoniali” ai quali si era assistito non erano generalizzabili e che, comunque, il bacio in bocca tra maschi non aveva alcun significato ambiguo, ovvero di natura sessuale. Eppure, proprio per quest’ultimo vero e proprio rituale, non è difficile trovare le radici in una tradizione descritta sia da Carlo Levi che dalla Deledda: il comparaggio (o comparatico) di San Giovanni, una fratellanza più forte delle parentele di sangue.
E dunque probabile che, anche senza dover pensare alla sopravvivenza dei “compari di San Giovanni” – ma anche senza escludere questa possibilità – il bacio in bocca, a Ollolai come in tanti altri paesi, fosse ancora, negli anni Sessanta, il segno di amicizia tra maschi.
3.
Ci si può chiedere, a questo punto, da dove derivi questo rifiuto – non generalizzabile, ovviamente, ma comunque verificato in altre situazioni – di un mondo che non risponde alle idee e alle pratiche dell’oggi, anche nel campo delle cosiddette e spesso solo apparenti tradizioni fondanti delle comunità. Ovviamente, qualunque discussione parte dall’assunto che la “verità” delle sequenze prescinde da ogni valutazione sul modo di effettuare una documentazione filmica. Sia l’inchiesta del secondo canale Rai che il brano di Fiorenzo Serra, infatti, sono stati “costruiti” attraverso una preparazione e una mediazione – neanche facile – con i protagonisti. In particolare, per il film di Serra, girato in ambienti chiusi e ristretti, non sarebbe stato nemmeno immaginabile poter filmare dettagliatamente la sequenza della conta dei soldi senza la preparazione del set. Ma questa procedura non inficia in alcun modo la verità storico-antropologica, e anzi ne conferma la veridicità attraverso la partecipazione attiva dei protagonisti alla costruzione del film. Il rifiuto o l’incredulità attuale potrebbero essere così considerati una sorta di “sconfessione” di un mondo troppo distante dalla modernità e soprattutto da una memoria locale in gran parte mitologica, tendente a trasformare, magari inconsciamente, le tradizioni in folclore.
Si può fare una verifica di questa tesi, cambiando scenario geografico e filmico, ovvero citando i cortometraggi cosiddetti demartiniani, dal nome del celebre demologo, Ernesto De Martino, che, a partire dal 1953, collaborerà con numerosi cineasti per “censire” – anche senza un progetto strutturato – la cultura tradizionale della Basilicata e della Puglia, con incursioni anche nella Campania e nella Calabria.
Il film più celebre di una serie abbastanza imponente è La Taranta (1961) di Gianfranco Mingozzi, dedicato alle pratiche magiche del Salento, ovvero alla musica ossessiva che dovrebbe curare le convulsioni provocate dal morso di un ragno. Nel 1977, un programma della seconda rete, Sud e Magia, firmato dallo stesso Gianfranco Mingozzi e dall’antropologa Annabella Rossi, rilegge il film con l’aiuto dei testimoni di un tempo (ad esempio il barbiere-musicista che eseguiva i riti di guarigione) e di osservatori, più inclini alla verità scientifica, come il medico condotto che aveva catalogato i “tarantati”, e soprattutto le “tarantate”, più numerose, secondo vere e proprie patologie psichiatriche comuni ai ceti sociali più poveri. Anche attraverso questa “revisione”, i filmati demartiniani, pur con le loro imprecisioni e con le loro ricostruzioni, sono diventati un segno storico fondamentale segnato dalla “visività” di un mondo scomparso o ridotto a evento folclorico spettacolare. Non è un caso che “La notte della Taranta”, che si svolge in Puglia da almeno una ventina d’anni, sia diventato un grande evento spettacolare che viene trasmesso in tv con grande successo.
Forse, se durante quello spettacolo, fossero proiettati i filmati originali degli anni Cinquanta e Sessanta – ovvero i riti di possessione, di trance e di guarigione – la reazione del pubblico non sarebbe diversa rispetto a quanto è accaduto a Ollolai. Dunque, per spiegare il fenomeno parallelo del rifiuto di una “visività” più o meno autentica ma lontana dall’oggi, e la passione per le ricostruzioni folcloriche dello stesso passato, neanche tanto remoto, si dovrebbe ricorrere obbligatoriamente al “perturbante” freudiano: qualcosa che deve rimanere nascosto, o meglio rimosso, per essere recuperato solo attraverso un processo di familiarizzazione: il folclore appunto e lo spettacolo che ne deriva.
di Gianni Olla