I Macisti della nazione
Maciste alpino è un film girato mentre impazza la tragedia della Grande Guerra, e si permette due sequenze solo all'apparenza "dal vero".
«Sono un pezzo fondamentale della storia del nostro Paese. Sono protagonisti di imprese eroiche. Hanno scelto la montagna come casa. Sono gli Alpini, un Corpo temerario che ha fatto di valori come solidarietà, fratellanza e difesa dell’ambiente la sua bandiera». Così si scriveva pochi mesi fa per pubblicizzare un’iniziativa editoriale. Fatta la tara al testo, a cent’anni dal conflitto restano intatti l’epos dell’alpino alimentato da codici retorici che si sono definiti nel tempo come il soldato prototipo del popolo della sana semplicità e dai pochi bisogni (la “graspa” o un “fiasco de vin” e un “vecchio scarpone”), della montagna come nemico primo da vincere, della fatica e della forza fisica, del coraggio, del legame con la natura; ovvero: la montagna come paesaggio interiore della nazione e gli alpini il corpo della nazione.
Maciste alpino di Luigi Maggi e Luigi Romano Borgnetto con la supervisione di Giovanni Pastrone (1916) è il film che in Italia dà il via alla mitopoietica ed è tra i primi fondatori del canone degli alpini “figli dei monti” che contribuiscono allo sforzo bellico “col braccio e col cuore”, vincolati “da un legame profondo di solidarietà”, che vivono “un piccolo mondo a sé” e figure sociali contrapposte ai cittadini, ai borghesi. Un canone che si consolida presto dando vita a una figura intermedia tra il soldato deamicisiano-risorgimentale e il soldato massa della guerra dei materiali: non è più l’antica cavalleria e nemmeno la “fredda austerità” della tecnologia di morte novecentesca. Rispetto al topos del combattente ottocentesco e anche all’incomprensibile poilu delle trincee di Verdun o della Somme, l’alpino convive e si identifica con l’ambiente austero della montagna. Come ha scritto Piero Jahier, il “loro padrone è la montagna che è l’autorità assoluta”. Gli alpini rendono intellegibile al fronte interno le dinamiche del conflitto moderno: sono un corpo fisico e antropologico prima che militare, un demos atipico che è al tempo stesso a-nazionale e capace di incarnare nell’immaginario il corpo di tutta la nazione.
L’eroe di Pastrone nasconde anche altro oltre alle difficoltà del fronte, perché eleva subliminarmente il corpo muscolare di Maciste a corpo eroico degli alpini, se non della nazione. L’alpino della Grande guerra è il simbolo di un Paese contadino, povero e semplice, e Maciste lo incarna per la sua generosità e la forza fisica; egli è il soldato con la penna nera che non retrocede mai, che sopporta la fatica dell’alta quota, che si aggrappa alla roccia con le unghie, che obbedisce per senso del dovere senza bisogno di spiegazioni, che si dimostra sempre calmo e si muove con serenità rassegnata. Il corpo di Maciste ha richiami simbolici che funzionano sia per un pubblico popolare che di soldati: la fame e il mangiare (i «cachets di nitroglicerina» di cui si nutre il supereroe, il monito a divorare il nemico con la sua stessa voracità); la forza fisica (il «prurito irresistibile» alla vista degli austriaci, la palestra a torso nudo tra i ghiacci o il bagno in una cascata gelata); il tricolore issato sulla vetta, simbolo e monito all’unità del popolo in guerra. L’esaltazione del corpo degli alpini (presto uno dei pochi e inossidabili miti della modesta identità nazionale italiana) si configura come retaggio culturale del passato che vuole mantenere viva la singolarità, seppure di corpo, nei confronti dell’anonimato della guerra moderna.
Vi sono due sequenze del film che si distaccano visivamente dal resto: nella prima si vedono alpini scalare pareti impervie sotto la neve per raggiungere la trincea, cannoni penzolanti in baratri paurosi che stanno per essere issati sulle cime; nella seconda passaggi acrobatici su funi tese nel vuoto. Le due sequenze sono un inciso interessante e poco rilevato analiticamente, un inciso che si stacca anche visivamente dal corpo del film. Qui non è più Maciste il centro del racconto, ovvero l’unico, ma il “gruppo”: dal corpo singolo al corpo degli alpini, dall’eroe individuale all’eroismo collettivo. È uno stacco dalla struttura di fiction e sembra approdare al “dal vero” e mostrare che se è vero che Maciste alpino è una narrazione è anche pur vero che in quel momento altri piccoli, ignoti, Maciste compivano azioni mirabolanti.
Si è creduto, e si vuol far credere, che le due sequenze siano effettivamente un “dal vero”, ma non è così. Il film venne ovviamente girato lontano dal fronte sia per i pericoli che questo avrebbe comportato, sia perché non sarebbe stata accessibile la zona alpina proibita a tutti i civili, ma anche perché la Itala Film, fondata da Carlo Sciamengo e Giovanni Pastrone, aveva sede a Torino, città che non aveva bisogno di andare sulle Dolomiti per trovare il set ideale: bastava andare a una cinquantina di chilometri, sulle Alpi Graie per girare un film sulla “guerra bianca”. Per l’esattezza il luogo è la Val Viù vicino a Usseglio (la valle più meridionale delle tre valli di Lanzo) e il Vallone d’Arnas. La conferma viene da testimonianze orali e da precisi riconoscimenti delle vette (Punta Lunella e Monte Lera, segnalazione della guida alpina di Usseglio Claudio Balagna), ma anche da altri indizi. In una delle scene di montagna è stata riconosciuta la guida alpina valdostana Francesco Ferro Famil detto “Vopotto” (nato a Usseglio nel 1863 e deceduto nel 1957, segnalazione di Gianni Castagneri). Pastrone era poi solito andare in vacanza in questi luoghi e negli anni Venti si fece costruire una villa in stile Liberty a Groscavallo. Può essere un ulteriore indizio il fatto che nel 1920 Filippo Costamagna gira a Balme, vicino a Usseglio, Sansone Burlone con Luciano Albertini (la conferma arriva da una copertina di “Domenica Illustrata” del 11 luglio 1920 che riporta un incidente capitato ad Albertini mentre gira il film a Balme) , ma anche che nel 1916 Febo Mari gira tra Ala di Stura e Balme Cenere con Eleonora Duse (è ambientato in Sardegna, ma la torinese Ambrosio per contenere i costi girò gli esterni nelle montagne e nei paesi della valle). Evidentemente queste zone montuose erano diventate un set ideale per le case di produzione torinesi.
Le due sequenze del finto “dal vero” di Maciste alpino riflettono ciò che si pensava fosse il set della “guerra bianca” che pochi avevano visto se non nelle copertine della “Domenica del Corriere” e nei primi filmati ancora molto rari (“La Guerre en Italie” del 1915), ma anche ciò che si voleva fosse: ovvero coraggio, sfida all’impossibile, tenacia individuale e collettiva, un conflitto che aveva come “nemico” la montagna e le sue asperità naturali. Il “canone” del corpo degli alpini nel 1916 si sta strutturando.
di Giuseppe Ghigi