I labirinti della storia: La donna che canta e L’insulto

In che modo il cinema ha affrontato il conflitto libanese durato ufficialmente quindici anni, dal 1975 al 1990, e caratterizzato dalle invasioni militari di Israele e della Siria? Partendo da due film (La donna che canta e L'insulto) si cerca di tracciare una mappa.

Due quesiti, rivolti non solo ai lettori ma anche e soprattutto allo scrivente: il primo riguarda la possibilità o la capacità di tracciare una mappa storica, anche minimale, del conflitto libanese durato ufficialmente quindici anni, dal 1975 al 1990, e caratterizzato dalle invasioni militari di Israele e della Siria. Ma soprattutto segnato da guerre fratricide, massacri di civili, distruzioni immani di città e paesi che proseguirono oltre le date indicate, fino all’inizio del nuovo secolo e oltre, trascinandosi dietro – fino ai nostri giorni – le “cause prime” della perenne guerra civile. Ovvero la nascita dello stato di Israele (1948) e le guerre successive tra il nuovo stato e i paesi arabi, nonché il massacro e la successiva cacciata dalla Giordania di Hussein dei palestinesi, organizzati nell’OLP di Arafat, nel biennio 1970/71, passato alla storia come “Settembre nero”: una definizione che ha certificato, per almeno vent’anni, il terrorismo dell’OLP esteso a tutti i paesi occidentali alleati d’Israele. Infine, la guerra civile libanese fu anche il primo evento della tragica storia mediorientale novecentesca ad avere caratteristiche etniche e religiose che si ritroveranno solo a partire dal 2000 in altri paesi a dominanza musulmana.

Giusto per chiudere questo breve esordio – che può essere saltato dai lettori che già conoscono quelle vicende – le due tracce memoriali/informative che, per anni, hanno simbolizzato la guerra o le guerre libanesi, sono stati, nel 1983, l’attentato suicida all’ambasciata statunitense di Beirut che provocò l’abbandono del diretto impegno USA in quel paese e, l’anno prima, il massacro nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila da parte delle Falangi libanesi – cristiani maroniti – e dall’Esercito del Libano del Sud che avrebbero dovuto essere sorvegliati dal comandante israeliano Ariel Sharon, incaricato paradossalmente dall’Onu di proteggere appunto i profughi palestinesi non ostili. Per anni il generale israeliano Ariel Sharon – futuro capo di stato – è stato indicato, anche in Israele, come il vero responsabile della strage, visto che avrebbe potuto impedirla intervenendo con sue truppe a difesa del campo, come da mandato Onu.

Quanto ai film, queste note si soffermeranno su due titoli recenti, La donna che canta (2010) di Denis Villeneuve e L‘insulto (2017) di Ziad Doueri. Ovviamente, una semplice ricerca su internet permetterebbe di indicare altri titoli che hanno circolato tra sala e tv. Ultimo in ordine di tempo è Beirut (2018) di Dan Anderson, scritto da Tony Gilroy e distribuito in Italia da Netflix: non più di un’intricata e ben costruita spy story che si svolge nel capitale libanese tra il 1973, a guerra non ancora iniziata, e nel 1982, poco prima dell’attentato all’ambasciata statunitense. Tornando indietro nel tempo, vale la pena di citare uno dei primi titoli su quella guerra: L’inganno (1981) di Volker Schlondorff, tratto da un romanzo di Nicolas Bom e sceneggiato da Margarethe Von Trotta e Jean Claude Carriére, oltre che dal regista. È un film bellico/esistenziale – dunque programmaticamente lontano dal racconto di quella specifica guerra – che racconta la crisi, anche sentimentale, di un giornalista tedesco che si trova “intrappolato” a Beirut, ostaggio di entrambi i contendenti e soprattutto senza più la protezione del suo mestiere.
Molto più recenti e celebri sono invece Valzer con Bashir (2008), film d’animazione israeliano sulla strage di Sabra e Chatila e soprattutto Lebanon, Leone d’oro a Venezia nel 2009: un grande film con una idea di regia straordinaria: la guerra vista dall’interno di un carro armato. La citazione di Lebanon, in ogni caso, ci permette di confrontare una costruzione filmica totalmente esposta verso l’esterno dunque tragicamente contemplativa – anche quando comprende la reclusione di un prigioniero palestinese dentro il carro – con le narrazioni nascostamente o apertamente labirintiche di L’insulto e La donna che canta.

L’Insulto di Ziad Doueiri è appunto il primo dei due titoli scelti come modelli di queste narrazioni labirintiche. Il regista, cittadino libanese – ma nato in Congo – è scappato dal suo paese ed emigrato negli Usa, ha studiato cinema in California. Assistente al reparto fotografia per i primi tre film di Tarantino (Le Iene, Pulp fiction e Jackie Brown) è tornato nel suo paese girando il suo primo film: West Beirut (2012). La trama di questa opera prima, incentrata sulla propria adolescenza bellica, sembra già anticipare, come si vedrà, gli episodi iniziali de La donna che canta. West Beirut ottiene un premio a Cannes ma non viene distribuito in Italia, così come il successivo Attack (2012), ambientato a Tel Aviv e boicottato sia in Israele che nei paesi arabi.

L’insulto, infine, è girato di nuovo a Beirut e ambientato molto tempo dopo la fine della guerra civile, ovvero in una parvenza di normalità all’interno della quale le appartenenze etnico-religiose che hanno dato vita a veri e propri partiti politici armati, sembrano aver perso la loro carica esplosiva e soprattutto i loro eserciti. Ma un banale incidente scatena una sorta di conflitto interetnico che rischia di tracimare. Tutto ha inizio quando un operaio palestinese, Salameh, ormai integrato nel paese e divenuto capo cantiere di un’impresa pubblica, mette in regola lo scarico dell’acqua bianca di un coetaneo, Hanna, che, dal terrazzo, finiva direttamente sulla strada. Il padrone di casa, Hanna, un cristiano maronita, dopo aver minacciato l’operaio, reagisce a quella intrusione, benché legale, e distrugge a martellate il nuovo scarico. Il diverbio si conclude con un pugno di Salameh che rompe due costole ad Hanna, dopo che questi pronuncia una frase decisamente poco felice: «Sharon avrebbe dovuto sterminarvi tutti!».

Segue una denuncia penale, la crisi della moglie di Hanna, in stato di gravidanza, che rischia di perdere il bambino e, soprattutto, una sorta di richiamo di massa che sfocia in manifestazioni di piazza dei vecchi schieramenti politici. E ovviamente i governanti si preoccupano della possibile estensione di questi disordini. Dopo un lungo intermezzo di mediazioni inutili si celebra il processo che vede schierati l’uno contro l’altro padre e figlia, entrambi avvocati di grido e divisi caratterialmente e politicamente. Il colpo di scena del prefinale, che vede comunque assolto Salameh, è la rivelazione/giustificazione dell’odio di Hanna, fuggito nel 1976 da Damour, una ricca cittadina agricola a sud di Beirut, a maggioranza cristiana, assaltata dai palestinesi di un vicino campo profughi, che sterminarono migliaia di civili, comprese donne e bambini. Salameh, nel finale, dopo che il suo rivale si è tranquillizzato sulla salute della moglie e del neonato, va a trovarlo nella sua officina, provocandolo volontariamente con l’affermazione che i palestinesi furono comunque le vittime principali della guerra civile. Hanna reagisce con un pugno e Salameh si allontana, quasi contento nonostante il dolore, di aver risolto almeno quella guerra personale.
In alcune recensioni dei film di Doueri si legge che, fortunatamente, il regista non ha raccolto l’eredità di Tarantino. Eppure, anche se chi scrive non è affatto deluso per l’assenza del “tarantinismo” ne L’insulto, è facile scoprirvi una traccia ben segnata dell’immaginario western-poliziesco hollywoodiano: quasi una filosofia estrema – saremo sempre nemici – e paradossalmente pacificata da quella virtuale “scazzottata”, all’inizio e poi alla fine del film, che sostituisce un duello armato. Infatti, se la rivelazione processuale, con tanto di documentazione filmica che mostra la guerra vera, è il passato incancellabile, i pugni sono il residuo perenne del “vulnus” bellico. In questo senso, il film di Doueri sembra evocare un labirinto nascosto – i massacri e l’odio nazionalistico ed etnico – i cui accessi sono ancora aperti e mai, probabilmente, si chiuderanno.

Il secondo film, La donna che canta, girato dal canadese Denis Villeneuve, è il titolo italiano di Incendies, ispirato all’omonimo testo teatrale di Wajdi Mouawad (messo in scena anche in Italia), a sua volta basato sulla vita di  Souha Fawaz Bechara, una militante filo palestinese che, nel 1981, attentò alla vita di un generale cristiano-maronita e fu condannata a dieci anni di reclusione in un carcere-lager. Questo fatto storico è un po’ il centro del testo teatrale e dello stesso film, pur con tutte gli adattamenti necessari nelle opere di finzione. Va infine sottolineato che il drammaturgo ha collaborato alla sceneggiatura del film assieme a Valérie Beaugrand-Champagne.

Sarebbe interessante mettere a confronto il copione o meglio la messa in scena diretta da Guido De Monticelli a Cagliari – sorta di oratorio dove i numerosi personaggi si muovono in uno scenario apocalittico, post bellico – con il film di Villeneuve. Ma, per approfondire questo confronto dovremmo deviare e di molto il nostro percorso critico. Ciò che si deve obbligatoriamente sottolineare è, invece, che la guerra presente in scena è ambientata in un generico Medio Oriente contemporaneo, segnato da una tale quantità di conflitti devastanti e fratricidi da lasciare tracce profonde nelle memorie individuali e collettive di quei popoli. Nel film, il luogo del conflitto è altresì riconoscibile come il paese d’origine di Mouawad, il Libano. E libanesi rifugiatesi in Canada durante o dopo la guerra civile sono la protagonista, Nawal Marwan, i suoi due figli, gemelli, Jeanne e Simon, poco più che ventenni, ma anche il carnefice di Nawal, Nahib, estranei l’una verso l’altro e in qualche modo incognite di un teorema che è anche e soprattutto un labirinto i cui accessi e le cui uscite sfidano lo spettatore ad inoltrarsi timidamente replicando o in qualche modo ribaltando la tragedia greca e i suoi derivati melodrammatici otto/novecenteschi.

La donna che canta si apre, su un piano propriamente narrativo, con la lettura di un testamento: Nawal, morta all’età di circa sessant’anni, raccomanda ai figli di cercare il loro padre – mai conosciuto e neanche presente nei rari racconti della madre, ermeticamente chiusa in un silenzio che custodiva un passato indicibile – e un loro fratello di cui non avevano neanche sospettato l’esistenza. Il testamento è stato scritto qualche anno prima della sua lunga agonia post traumatica dovuta a una rivelazione casuale che si vedrà solo verso la fine del film.

La riunione dal notaio è però preceduta da una serie di brevissime inquadrature che potremmo benissimo definire extra diegetiche. La prima si apre su un paesaggio collinare e, attraverso un lento movimento di macchina, si conclude sul volto di un bambino – dallo sguardo aggressivo, quasi rivolto al pubblico – a cui vengono tagliati radicalmente i capelli. L’inquadratura finale serve a identificare il personaggio attraverso dei segni corporei (tre puntini incisi nel piede), ed è paradossalmente prolettico e analettico, visto che anticipa i fatti che verranno spiegati solo verso la fine del film e, a sua volta, ingloba la scena madre della nascita e dell’abbandono dello stesso individuo, nel cui piede la nonna segna i tre puntini, per poterlo ritrovare, citando ma anche ribaltando, come vedremo, l’Edipo sofocleo.

Il richiamo alla tragedia edipica, apparentemente ammorbidita, si specchia, immediatamente dopo, nel testamento della protagonista. Si chiede agli unici eredi, Jeanne e Simon, di seppellire la loro madre nuda, senza bara, semplicemente buttata a faccia in giù dentro una fossa e senza alcuna indicazione nominale. E qui siamo appunto all’epilogo di Edipo a Colono, visto che questo desiderio di cancellarsi è già in sintonia con “il non essere nati è la cosa migliore” che chiude il dittico di Sofocle. La presenza del bambino “segnato” in modo da poter, prima o poi, essere riconosciuto dalla madre, è appunto il ponte che unisce la tragedia antica al melodramma ottocentesco. Solo che, in questo caso, l’agnizione, dapprima evocata, di nuovo proletticamente, attraverso le brevi e ripetute inquadrature di una piscina, è poi espressa in una sequenza di nuovo tragica ma ancora parzialmente enigmatica che provocherà la “lunga morte” di Nawal, entrata in coma dopo quella visione casuale dei tre puntini sul piede di un bagnante. E come se l’Edipo che ha violentato la propria madre, generando due figli, abbia trasmesso la maledizione eterna all’inconsapevole protagonista femminile che, appunto, viene “accecata” – il coma che dura quattro anni – da questa rivelazione.

Ma tornando alla trama, di nuovo Sofocle è all’origine del doppio percorso di ricerca che caratterizza, dopo la lettura del testamento, la successiva narrazione filmica. Il primo riguarda la madre, cioè Nawal, scacciata dalla famiglia, che cerca il suo bambino – avuto da un ragazzo palestinese, poi ucciso dai fratelli della protagonista, cristiano-maroniti – nel caos della guerra civile, finendo per diventare una terrorista filo palestinese, rinnegando cioè la sua religione, soprattutto dopo essere scampata a un massacro di palestinesi da parte dei cristiani-maroniti. Dall’altra la figlia, novella Antigone, che, anche contro il parere del sanguigno fratello, da sempre avverso a quella madre misteriosa, parte per il Libano in cerca delle tracce che possono condurla a svelare i misteri della vita materna. Ma queste tracce sono quasi sempre delle macerie, cioè delle semplici testimonianze delle distruzioni belliche, con i possibili testimoni che non possono o non vogliono ricordare.

La sovrapposizione virtuale tra la giovane Nawal Marwan e la figlia Jeanne, interpretate dalla stessa attrice (Mélissa Désormeaux-Poulin), indica ovviamente l’eterno ritorno della tragedia: la prima reale, la seconda memoriale o anche investigativa. La ricerca della verità è, infine, la soluzione di un teorema – Jeanne è una docente universitaria di matematica pura – il cui risultato sembra impossibile nel mondo reale. La memoria e il sapere, dunque, dovrebbero essere il controveleno – comunque doloroso, sofferto – delle tragedie che vengono mostrate senza alcuna censura e senza alcuna spettacolarizzazione, nella loro brutalità secca, essenziale ma capace di trascinare lo spettatore nel labirinto della guerra.

Si comincia con l’uccisione del fidanzato di Nawal, poi con la strage dell’autobus pieno di donne e bambini, bruciato dai miliziani maroniti e quindi nell’attentato al ministro compiuto dalla stessa Nawal che verrà poi condannata a quindici anni di detenzione. E ancora, nel lungo capitolo della prigione in cui è torturata e stuprata la protagonista; e infine, nei bersagli umani a cui si dedica l’ormai celebre Abou Tarek, o Nihad, il suo violentatore e, senza saperlo, padre dei due gemelli, Jeanne e Simon.
In questo senso, il film racconta l’eterna contraddizione del vivere post bellico, soprattutto quando Simon, che ha raggiunto Jeanne in Libano, deve inoltrarsi nei meandri (letterali) di un ex campo profughi ormai diventato un vero e proprio villaggio palestinese separato dal mondo: il provvisorio è diventato eterno ed ha tentato di cancellare anche la memoria degli eventi. Sarà lì che proprio Simon, che si rifiutava di conoscere la vita della madre, dovrà accettare la verità rivelata da una delle tante porte del labirinto che lui e la sorella hanno dovuto varcare. Ma prim’ancora, in una sequenza apertamente e volutamente melodrammatica, sarà l’anziana infermiera, da tempo malata, che aveva salvato le vite di Jeanne e Simon, destinate entrambi all’affogamento, a raccontar loro la verità e a commuoversi per quel ritrovamento. La sequenza è un’esplosione di autentico pathos – l’unica nel contesto di un film sempre teso verso altre esplosioni, quasi sempre segnate dalle tragedie – ma, nondimeno, l’effetto è egualmente devastante per le vite dei due gemelli. Così, anche dopo l’avvenuta catarsi finale, con la consegna delle lettere al padre/ fratello i conti non tornano comunque. Jeanne, che per cercare il padre e il fratello ha lasciato provvisoriamente l’insegnamento universitario, può pensare, sollecitata da Simon, che anche nella realtà, così come nella matematica pura, possono non esistere soluzioni. Tradotto nell’immaginario filmico, ma soprattutto nel mondo reale attraversato dalle tragedie belliche, la “non soluzione” dei quesiti è appunto il segno della tragedia incancellabile. Per i due ragazzi de La donna che canta e prim’ancora per la loro madre e persino per l’assassino/torturatore, figlio e fratello, non basteranno mai i pugni da film western de L’insulto per congelare la memoria della guerra. I suoi labirinti, aperti per brevi momenti, si richiudono nel silenzio.


di Gianni Olla
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